venerdì 11 settembre 2009

22. I mongoli

Nel XII secolo, la Mongolia è abitata da popolazioni tribali nomadi, che vivono prevalentemente di caccia, allevamento e pastorizia, mentre ignorano l’agricoltura, la scrittura e l’urbanesimo. La competizione fra gruppi confinanti, induce le singole tribù ad organizzarsi sotto la guida di un capo (khan) e diventano dominî.
I mongoli entrano nella storia, come protagonisti, nel XIII secolo, ad opera di Gengis Khan (1167 ca. - 1227). Chi è costui? Gengis Khan è il titolo onorifico di Temujin (che significa fabbro), figlio di Yesugei, un oscuro capoclan mongolo della tribù dei Borgigin, che è composta da diciotto clan. La vita di Yesugei è quella di tutti gli altri capiclan nomadi, che sono dediti all’allevamento e alla caccia, e si svolge in un periodo in cui, a causa delle difficoltà di reperire le risorse necessarie per i propri fabbisogni, molti si vedono sempre più spesso costretti a “fare e subire scorrerie” (MAN 2006: 56). Temujin eredita questa situazione.
Rimasto orfano di padre all’età di 8 anni, Temujin deve attraversare un periodo gramo, delicato e carico di tensione, in cui arriva ad uccidere il fratello maggiore. Poi si riprende e ritorna a guerreggiare con i clan limitrofi, divenendo abbastanza famoso da meritare in isposa la figlia di un altro capoclan locale. Acquistato un certo prestigio, si pone al seguito del più importante leader mongolo del momento, Toghril, che è a capo di una confederazione di tribù e al quale si appoggiano i cinesi nel tentativo di liberarsi dall’invadenza dei tatari. Mentre Toghril fa il gioco della Cina e si accontenta di una politica di secondo piano, Temujin pensa ad una politica più indipendente e spregiudicata. Per lui non ci sono che due alternative possibili: o si continua a farsi guerra fra tribù, oppure ci si unisce sotto un grande capo e si costituisce una forza militare tale da superare anche la Grande Muraglia e affacciarsi sulle vicine terre coltivate della Cina. Temujin intende percorrere questa seconda via, ma ciò lo pone in attrito con Toghril, e poi in lotta aperta. Alla fine ha la meglio Temujin, che viene eletto khan supremo della confederazione mongola (1206) e prende il nome di Gengis, che significa “oceano”, per indicare la vastità dell’area da lui controllata. Nasce così lo Stato mongolo unificato, che adesso è in grado di esprimere appieno il potenziale militare di cui è dotato e può attaccare la Cina.
Ai suoi generali Gengis chiede obbedienza cieca, in cambio di una vita migliore. I cavalieri mongoli si muovono con rapidità sorprendente: all’improvviso compaiono e colpiscono e all’improvviso si dileguano nel nulla, per poi comparire di nuovo. Sono inafferrabili. Grazie ad un efficientissimo sistema di trasmissione delle informazioni, i vari contingenti dell’esercito si compattano o si separano, avanzano o indietreggiano, a seconda dell’obiettivo che devono raggiungere. La forza e l’agilità dell’esercito mongolo sono tali da consentire a Gengis di conquistare, in pochi anni, non solo la Cina, ma anche gran parte dell’Asia, compresi alcuni paesi musulmani, giungendo alle porte dell’Europa orientale, il che rende possibile il contatto fra Oriente e Occidente, con conseguente scambio commerciale culturale fra i due mondi.
L’avanzata di Gengis è metodica e spietata. L’obiettivo è la conquista e il bottino. Ai suoi guerrieri distribuisce gloria, potere, ricchezza, schiavi e uno status sociale superiore, secondo quanto ha promesso. Le popolazioni assoggettate dai mongoli vengono considerate proprietà personale dei capi militari, che le sfruttano a loro arbitrio. I nemici che osano opporre resistenza vengono uccisi in massa. Si calcola, tanto per fare un esempio, che, nei due anni in cui invadono i paesi musulmani, i mongoli massacrano tre milioni di persone, una media di 4 mila persone al giorno. I prigionieri sono usati come forza lavoro, come soldati e come carne da macello, da mandare in prima linea a riempire coi loro corpi i fossati intorno alle mura delle città assediate (MAN 2006: 136).
Gengis Khan non è solo un grande condottiero, ma anche, cosa notevole per un analfabeta, un eccellente uomo di stato, un valido amministratore e un profondo conoscitore dell’animo umano. Consapevole di non disporre degli strumenti tecnici necessari ad amministrare il suo immenso impero, sa appropriarsi dei mezzi dei popoli sottomessi, primi fra tutti la scrittura e l’apparato burocratico. Non solo: comprende anche l’importanza di creare un diritto per garantire stabilità alle sue conquiste. Si tratta di un diritto fazioso come tutti i diritti che promanano da un vincitore, ma sufficiente a raggiungere lo scopo previsto.
Gengis attua anche una politica legata al merito e offre possibilità di carriera ai generali più valorosi e fedeli, e speciali privilegi ai diecimila guerrieri, che costituiscono la sua guardia del corpo e che sono scelti fra i figli degli ufficiali dell’esercito: è un modo per garantirsi la fedeltà di questi ultimi, dal momento che egli tiene, in qualche modo, in ostaggio i loro figli. Sa riconoscere l’uomo valoroso anche fra le classi più umili e perfino fra i nemici, tanto che chiunque (un musulmano, un cinese o un buddista, e perfino un pastore) può essere arruolato nell’esercito mongolo e divenire generale.
Gengis è anche un po’ sognatore e i primi successi gli fanno maturare la convinzione “di essere stato prescelto dalla divinità per il dominio del mondo” (MAN 2006: 207). In quanto “re per diritto divino”, egli impone a tutti i sudditi il Grande Yasa, un codice di leggi che costituisce la base sulla quale viene costruito il solido edificio dell’impero, che risulta composto di tanti principati, o canati, organizzati in modo feudale. Di più proprio i suoi non gli potrebbero chiedere.
Senza voler minimizzare le eccezionali qualità militari e umane di Gengis, dobbiamo dire però che egli è anche fortunato: se fosse arrivato qualche decennio dopo, quando si andranno diffondendo le armi da fuoco, non avrebbe avuto molte probabilità di successo. Ma così non è. Il momento è propizio e Gengis è un uomo troppo abile, concreto e intelligente, per lasciarsi scappare la ghiotta occasione che gli si offre. Sta anche qui la sua grandezza. Il bilancio della vita di Gengis non può essere più lusinghiero e a qualcuno che gli domanda quale sia per lui la più grande gioia per un uomo, risponde: “la più grande gioia nella vita d’un uomo è vincere i propri nemici e scacciarli innanzi a sé; inforcare i loro cavalli ben nutriti e rapir loro tutto ciò che possiedono; vedere in lacrime i volti delle persone che son loro care; stringere fra le braccia le loro mogli e le loro figlie” (ADRAVANTI 1984: 313).
Alcuni anni prima di morire, quando è all’apice della potenza e tutti si chinano dinanzi alla sua gloria, Gengis intuisce l’importanza di celebrare le sue imprese in modo che possano entrare nella storia e diventare immortali. Egli sa perfettamente che la forza fisica è un elemento instabile di dominio: prima o poi ti scontri con qualcuno che è più forte di te e devi uscire di scena. Ed ecco allora l’idea geniale: un racconto delle sue gesta, scritto da gente esperta, che egli paga perché lo dipinga come un essere divino, è quello che ci vuole per elevare il personaggio al di là della prosaicità della vita e proiettarlo in una dimensione idealistica tale da stimolare la fervida immaginazione del lettore e penetrare nei suoi sentimenti più profondi. Nel momento in cui Gengis commissiona il libro sulla storia segreta dei mongoli, egli sta consegnando ai posteri un documento che ne dovrà legittimare la figura e le imprese, a perenne memoria.
Alla morte di Gengis Khan, l’impero viene prima spartito fra i tre figli che gli sopravvivono, Tolui, Ogodai e Ciogatai, e, dopo due anni, riunito da Ogodai (1229-41), che assume il titolo di gran khan. Ogodai lancia alla conquista dell’Europa il nipote Batù, il quale si rivela un eccellente condottiero e giunge vittorioso alle porte di Vienna, quando viene fermato dallo stesso Ogodai. L’espansione mongola raggiunge il suo apogeo sotto il regno di Mongka Khan (1251-9), il cui fratello, Kubilai, riunisce sotto la propria autorità tutta la Cina, servendosi dell’apparato istituzionale e burocratico locale, ma preservando l’identità culturale e il potere politico della popolazione mongola, alla quale affida le più importanti cariche governative.
La coesione delle genti mongole poggia sui buoni rapporti che si stabiliscono fra i condottieri, anche grazie ad una prassi di equa divisione dei bottini di guerra. Il controllo di un dominio tanto vasto è agevolato dagli stretti e frequenti contatti tra Gran khan e khan locali, che sono resi possibili anche in virtù di un buon sistema viario, che i sovrani mongoli sfruttano per istituire un efficace servizio di corrieri, che percorrono a cavallo le praterie e i deserti dell’Asia centrale, e per dare un forte impulso ai commerci, che favoriscono l’arrivo di missionari e viaggiatori stranieri, fra cui Marco Polo, accolto alla corte di Kubilai Khan.
I mongoli vogliono conquistare anche il Giappone ma, per ben due volte, la loro flotta viene fermata, anche a causa di eventi atmosferici avversi, e, alla fine, rinunciano. Una sconfitta subita in Siria ad opera di un esercito egiziano formato da schiavi guerrieri (mamelucchi), indica che la loro forza espansiva si è esaurita. Adesso devono solo badare a godersi i frutti delle loro fatiche, ma non sono amati dalle popolazioni sottomesse. Inoltre, il codice imperiale si rivela insufficiente a fondere in una realtà politica omogenea le popolazioni via via annesse e la convivenza di diverse culture e religioni finisce per minare la stabilità dell’impero. A contatto con le raffinatezze della Cina, i successori di Kubilai perdono lo smalto guerriero e si abbandonano alle mollezze della vita di corte e a feroci lotte intestine per questioni di potere, che indeboliscono l’impero. Nelle popolazioni sottomesse cresce il malcontento. La classe degli ex funzionari confuciani è irritata dalle proscrizioni, che impediscono ai cinesi di ricoprire incarichi importanti, mentre il peso delle tasse aliena ai governanti l’appoggio della classe contadina.
A partire dal 1340 scoppiano insurrezioni in quasi tutte le province imperiali, nel corso di una delle quali, Zhu Yuanzhang (un monaco buddhista) riesce ad imporsi e ad estendere il suo potere su tutta la Cina e, col nome di Hung-wu, fonda la dinastia Ming (1368-1644). Ad occidente, invece, l’impero mongolo viene abbattuto da un sovrano di origine turco-mongola, detto Tamerlano.

Nessun commento:

Posta un commento