venerdì 11 settembre 2009

27. Gli americani

Fino al XV secolo, le genti che calpestano il suolo del Continente americano vivono in condizione di pressoché totale isolamento dal resto del mondo, e questa particolare condizione è alla base di una evoluzione culturale “parallela”, che, nel momento in cui i due mondi si incontreranno, risulterà meno avanzata e dovrà soccombere. Se ora consideriamo il livello culturale delle popolazioni americane, che esso varia sensibilmente a seconda del luogo. In particolare, solo nel Mesoamerica e Sudamerica vengono fondate città e regni, mentre nel Nordamerica gli uomini continuano a vivere ragguppati in tribù nomadi. Le principali civiltà americane, per lo meno, le più recenti al momento dell’arrivo degli Europei, sono quelle dei Maya, degli Aztechi e degli incas.

27.1. I maya
I maya si organizzano in città-stato, che sono rette da una monarchia assoluta ed ereditaria. Intorno al 300 d.C. costituiscono l’Antico Impero, che tramonta dopo sei secoli ed è seguito dal Nuovo Impero, la cui capitale, Mayapán, viene fondata nello Yucatan (987). Il re di Mayapán controlla le altre città, che affida a suoi governatori. L’ordinamento politico dell’impero maya somiglia ad una “teocrazia feudale” (HAGEN 2006: 10). L’economia è essenzialmente agricola ed è fondata sulla coltivazione del mais, ma si coltivano anche fagioli, zucche, patate, cotone, cedri, e altro. In caso di siccità, i maya offrono sacrifici umani agli dèi per implorare la pioggia. La terra è proprietà comune del clan, che la distribuisce alle singole famiglie, che la coltivano e che sono tenute a cedere una parte del raccolto al re. Quando non lavorano nei campi, i contadini vengono impiegati nella costruzione di templi, edifici e strade. Non disponendo di animali da soma, i maya devono trasportare le merci a spalla. Il commercio è una professione onorata.
I maya vivono in uno stato di guerra permanente. Le armi in uso sono la lancia, le frecce con punta di ossidiana, il coltello di selce, la spada con la lama di ossidiana e la fionda. Non combattono di notte. Se il capo muore, la guerra ha termine. I prigionieri di guerra vengono resi schiavi: i più valorosi vengono destinati ai sacrifici, gli altri vengono destinati ai lavori più umili. L’intera vita maya è orientata alla religione e ai suoi riti. La stessa architettura è ad uso esclusivo della religione. Il gran sacerdote ha un potere immenso e la sua carica è ereditaria. Egli si serve di specifici funzionari, come il chilan, che è specializzato nel cogliere e interpretare la volontà divina.
I maya creano una cultura autoctona relativamente evoluta. Inventano autonomamente una scrittura geroglifica molto complessa, di cui lasciano pochissime testimonianze, e usano un calendario solare di 365 giorni, diviso in 18 mesi di 20 giorni. La loro aritmetica è fondata su un sistema vigesimale, che comprende lo zero. Conoscono la ruota, ma la usano solo nei giocattoli dei bambini. Lo stesso vale per i metalli: i maya conoscono il rame e l’oro, ma se ne servono solo come ornamenti. I principali crimini riconosciuti sono il furto, l’omicidio, l’adulterio e la lesa maestà, che vengono puniti con pene della stessa natura. Quando arrivano gli spagnoli, i maya stanno attraversando un periodo di decadenza. Nel 1540 vengono sottomessi.

27.2. Gli aztechi
Gli aztechi sono tribù nomadi che provengono da nord e si insediano nell’attuale Messico intorno all’XI secolo d.C. e devono combattere contro altre popolazioni (toltechi, chichimechi) prima di fondare il loro impero, nel XIV secolo, che, come quello maya, è organizzato in città-stato. Sono un popolo guerriero, che presenta un ordinamento sociale con tratti democratici: la maggior parte delle decisioni vengono prese a votazione popolare, dopo aver consultato l’assemblea dei capiclan. Gli aztechi adorano un dio amante di sacrifici umani di ampie proporzioni e praticano una guerra di rapina permanente, che è preceduta da avanguardie informative costituite da commercianti. La guerra ha anche una motivazione di natura religiosa, che è quella di catturare esseri umani da sacrificare, oltre che di riscuotere tributi. Le popolazioni vinte sono spogliate di ogni bene e sottoposte ad un regime di terrore e saccheggio.
Gli aztechi praticano l’agricoltura: coltivano mais, fagioli e patate. La terra appartiene alla comunità del clan, non all’individuo: se il contadino muore e non ha eredi, la terra da lui coltivata ritorna al clan, che ne è legittimo proprietario. Gli aztechi non conoscono il denaro, né la ruota, né animali da soma, ma conoscono la carta, che è ricavata dalla corteccia del Ficus, e una scrittura ideografica, adatta per funzioni amministrative e libri contabili, più che per esprimere idee e sentimenti. Adottano un sistema numerico vigesimale, ma privo dello zero. Le imposte vengono pagate sotto forma di beni di consumo o di lavoro. Gli aztechi vengono sottomessi dagli spagnoli nel 1524. “Se gli Aztechi erano sanguinari e avevano compiuto massacri d’individualità umane nella loro conquista […], gli Spagnoli, con il massacro di una civiltà come tale, si mostravano in tema d’umanità criminali ben più pericolosi” (PIÉRON 1969: 135).

27.3. Gli incas
L’ultima civiltà in ordine cronologico, che si afferma nella regione che corrisponde al Perù, è quella inca, che si afferma agli inizi del XIII secolo, al termine di una lotta per l’egemonia fra le diverse tribù che popolano il Sudamerica. Alla fine si impone la tribù degli incas. Sappiamo che essi conquistano rapidamente un grande impero e lo organizzano con molta efficienza, in un modo che ricorda quello dell’Egitto faraonico. Tutto il potere è nelle mani dell’imperatore-dio, che lo trae direttamente dal dio Sole e lo esercita insieme ai suoi parenti, in special modo i figli, che, spesso, si trovano a doversi confrontare in sanguinose lotte per la successione. Il sistema politico che ne risulta è una vera e propria teocrazia.
Gli incas sono organizzati in clan territoriali. La terra appartiene al clan e i singoli la ricevono in affitto e la lavorano traendone il necessario per la sussistenza e versando una parte del raccolto al capoclan. Gli incas calcolano l’estensione di terreno coltivabile sufficiente a nutrire una coppia di sposi senza figli, il tupu. Ad ogni coppia viene assegnato un tupu; un altro tupu viene aggiunto per ogni figlio, mezzo tupu per ogni figlia. L’eccedenza del terreno coltivabile rimane di proprietà dell’imperatore e dei suoi funzionari. A favore dell’imperatore sono tenuti a prestare una quantità di lavoro determinato per anno.
Gli incas non conoscono la moneta, né la scrittura e ignorano il mare. Non hanno nemmeno veicoli a ruota e, in pratica, trasportano tutto a mano o sulla testa, potendo contare solo sull’aiuto del lama, che però può sostenere un carico limitato. Dispongono di un’imponente rete viaria, che è concepita per essere attraversata da lama e pedoni: essa è larga in certi punti, in certi altri stretta e ripida, ed è segnata qua e là da ponti sospesi. Veloci staffette la percorrono, trasportando informazioni da un luogo all’altro.
Gli incas sono anche abili organizzatori ed efficienti esattori di tasse, che riscuotono sotto forma di manodopera e di risorse. La guerra è molto praticata. Ogni contadino inca, quando non lavora la terra, è potenzialmente un soldato. Le sue principali armi sono la mazza con testa litica o bronzea, la lancia di legno con punta indurita al fuoco o metallica, una lunga spada di legno e la fionda; la sua armatura è molto semplice e consiste in una giubba di cotone imbottita, in un elmo e in uno scudo di legno. L’unico esercito permanente è la guardia reale.
Sebbene la religione rivesta un’importanza considerevole, gli incas praticano raramente il sacrificio umano. Organizzati gerarchicamente, gli incas sono assai efficienti e produttivi, ma i loro limiti tecnologici (conoscono il bronzo, ma non il ferro) e la loro mancanza di immunità nei confronti delle malattie infettive portate dagli europei risulteranno fatali. Quando entra in scena Francisco Pizarro col suo piccolo esercito, il 13 maggio del 1532, gli incas sono impegnati in una dura guerra civile, in cui due figli del defunto imperatore, Huazcar e Atahualpa, si contendono il potere, e questo non può che facilitare l’azione di conquista dello spagnolo. Ha la meglio Atahualpa, che fa giustiziare il fratello, divenendo unico imperatore, ma viene catturato da Pizarro e infine ucciso. Il glorioso impero inca si è dissolto.
Gli incas non vengono sconfitti solo dalle armi degli Spagnoli, ma anche da malattie, come vaiolo, morbillo, pertosse, difterite, scarlattina, varicella, malaria e influenza, nei confronti delle quali sono privi di difese immunitarie. Di loro rimangono solo tradizioni orali, che vengono raccolte, in modo peraltro contraddittorio, dai conquistatori.

26. Gli Indiani

A partire dall’inizio dell’XI secolo, l’India subisce diverse incursioni da parte di turchi e la penetrazione dell’islamismo. Dopo l’invasione operata dal Tamerlano (1398-9), l’India non è che un mosaico di Stati musulmani in continua lotta fra loro.

25. I giapponesi

Nel corso del XII secolo, allo scopo di bilanciare l’eccessivo potere di alcuni signori locali, gli imperatori si appoggiano ad alcuni funzionari e guerrieri, che ricompensano con la concessione di feudi. Nel 1156 si apre un periodo di scontri dinastici, che si conclude con l’instaurazione di un governo militare (1192), al cui vertice c’è lo shogun, che è il capo effettivo di tutto il paese, mentre l’imperatore rimane una figura rappresentativa e la grande feudalità tende a guadagnare l’indipendenza. Dopo un po’, questo sistema politico sembra non funzionare, tant’è che si apre per il Giappone un lungo periodo (1281-1614), che è caratterizzato da una spiccata debolezza del potere centrale e instabilità politica. Nel 1482 si apre un periodo di completa anarchia, in cui i vari signori si combattono. Molti di essi riescono a trasformare il proprio feudo in signoria. La riunificazione del Giappone avviene nella seconda metà del XVI secolo ad opera di tre grandi capi militari, Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu.

24. I cinesi

Sotto l’impero Song la Cina è “lo Stato più popoloso, più prospero e civile del mondo” (Sabattini, Santangelo 2005: 344). Ha un esercito moderno, dotato di armi da fuoco e di una potente marina da guerra, la maggiore al mondo, che dispone di una cartografia fra le più avanzate e della bussola. L’accresciuto traffico commerciale determina la diffusione di un’economia monetaria e influisce sull’incremento dell’urbanizzazione. Il sistema degli esami viene perfezionato e, a metà dell’XI secolo, vengono inventati i caratteri mobili e la stampa si diffonde su vasta scala. Ciononostante, la Cina si rivela impotente contro l’irruenza dei barbari cavalieri mongoli.
Nel 1271, il mongolo Kubilai dà inizio alla dinastia Yüan, ma, meno di un secolo dopo, dalle regioni meridionali della Cina parte la riscossa, che si conclude con la cacciata dei mongoli da parte di Hung-wu, che fonda la dinastia Ming (1368-1644). Gli imperatori Ming attuano una politica pacifica e di chiusura e, benché dispongano delle navi migliori del mondo, non incoraggiano le esplorazioni marittime alla ricerca di nuove terre e nuove ricchezze. Probabilmente stanno così bene da non avvertire il bisogno di nuove opportunità. Saranno i più arretrati e famelici europei a dimostrarsi più intraprendenti e a distinguersi in memorabili imprese di esplorazione e di conquiste, che li porteranno a superare in tecnologia e ricchezza la stessa Cina.

23. I turco-mongoli

Nato in Transoxania (attuale Uzbekistan), Timur (1336 - 1405) è uno dei tanti modesti capi-clan, in un periodo in cui la Transoxania è frammentata in tanti piccoli khanati. Timur è un musulmano fanatico e, insieme, un uomo di notevole cultura, amante dell’arte e, soprattutto, molto ambizioso. Mentre sta razziando del bestiame ad una vicina tribù, viene ferito ad una gamba e rimane zoppo. Da ciò il nomignolo lang (zoppo), Timur Lang, che, in italiano, diventa Tamerlano. Inizialmente, Timur si pone al servizio di uno dei signori più potenti della Transoxania, l’emiro Khazgan, dove ha modo di mettersi in luce, e già medita di emulare le gesta di Gengis Khan. Non ne è un discendente, ma se ne considera erede per diritto divino. Sempre così: quando si è sufficientemente forti da poter imporre le proprie idee, si sente il bisogno di farsi legittimare da un dio.
Il primo passo è quello di esporsi con la promessa di ricompensare i sostenitori e con la minaccia di escludere dai benefici o di punire in modo esemplare i recalcitranti. Ai primi successi, si rivela magnanimo coi suoi alleati, coi quali divide il bottino di guerra. Dopo una vittoria, subito individua il nemico successivo, contro cui combattere e, battaglia dopo battaglia, tra il 1364 e il 1370, riesce ad unificare la Transoxania sotto il proprio controllo. I sudditi lo amano: il bottino di guerra li ripaga delle tante fatiche. Ma anche lo temono: sanno che la loro vita dipende da lui. Nessuno osa contestarlo e il suo potere è assoluto.
Tamerlano adesso è un signore potente e potrebbe vivere in pace, accontentandosi della propria condizione, ma poiché mira a restaurare l’impero di Gengis Khan, continua a porsi sempre nuovi obiettivi di conquista, riuscendo nella straordinaria impresa di conquistare Iran, Mesopotamia, Armenia, Georgia, India, Siria e Iraq, per poi attaccare e sconfiggere il sultano ottomano Bayazid I. Compie anche ripetute incursioni in Russia e in Lituania. È una macchina da guerra inarrestabile, che per 35 anni sconvolge tutta l’Asia anteriore e ovunque compie spaventose stragi. Nello stesso tempo Samarcanda, la sede imperiale, diviene una splendida e raffinata città, resa tale da una folta schiera di artigiani, architetti e artisti, catturati nelle regione conquistate e costretti ad impegnarsi secondo i desideri del despota, che muore nel 1405, mentre organizza l’ennesima spedizione, indirizzata questa volta contro la Cina.
Se somiglia a Gengis Khan come conquistatore, Tamerlano non dimostra le stesse qualità nel settore amministrativo e, di fatto, il suo smisurato impero si regge in piedi solo grazie alla forza. Così, già alla sua morte, il suo impero inizia subito un lento declino, che si accompagna alla ripresa dell’irresistibile avanzata dei turchi ottomani e si conclude nel 1507 con la fine della dinastia dei Timuridi.

22. I mongoli

Nel XII secolo, la Mongolia è abitata da popolazioni tribali nomadi, che vivono prevalentemente di caccia, allevamento e pastorizia, mentre ignorano l’agricoltura, la scrittura e l’urbanesimo. La competizione fra gruppi confinanti, induce le singole tribù ad organizzarsi sotto la guida di un capo (khan) e diventano dominî.
I mongoli entrano nella storia, come protagonisti, nel XIII secolo, ad opera di Gengis Khan (1167 ca. - 1227). Chi è costui? Gengis Khan è il titolo onorifico di Temujin (che significa fabbro), figlio di Yesugei, un oscuro capoclan mongolo della tribù dei Borgigin, che è composta da diciotto clan. La vita di Yesugei è quella di tutti gli altri capiclan nomadi, che sono dediti all’allevamento e alla caccia, e si svolge in un periodo in cui, a causa delle difficoltà di reperire le risorse necessarie per i propri fabbisogni, molti si vedono sempre più spesso costretti a “fare e subire scorrerie” (MAN 2006: 56). Temujin eredita questa situazione.
Rimasto orfano di padre all’età di 8 anni, Temujin deve attraversare un periodo gramo, delicato e carico di tensione, in cui arriva ad uccidere il fratello maggiore. Poi si riprende e ritorna a guerreggiare con i clan limitrofi, divenendo abbastanza famoso da meritare in isposa la figlia di un altro capoclan locale. Acquistato un certo prestigio, si pone al seguito del più importante leader mongolo del momento, Toghril, che è a capo di una confederazione di tribù e al quale si appoggiano i cinesi nel tentativo di liberarsi dall’invadenza dei tatari. Mentre Toghril fa il gioco della Cina e si accontenta di una politica di secondo piano, Temujin pensa ad una politica più indipendente e spregiudicata. Per lui non ci sono che due alternative possibili: o si continua a farsi guerra fra tribù, oppure ci si unisce sotto un grande capo e si costituisce una forza militare tale da superare anche la Grande Muraglia e affacciarsi sulle vicine terre coltivate della Cina. Temujin intende percorrere questa seconda via, ma ciò lo pone in attrito con Toghril, e poi in lotta aperta. Alla fine ha la meglio Temujin, che viene eletto khan supremo della confederazione mongola (1206) e prende il nome di Gengis, che significa “oceano”, per indicare la vastità dell’area da lui controllata. Nasce così lo Stato mongolo unificato, che adesso è in grado di esprimere appieno il potenziale militare di cui è dotato e può attaccare la Cina.
Ai suoi generali Gengis chiede obbedienza cieca, in cambio di una vita migliore. I cavalieri mongoli si muovono con rapidità sorprendente: all’improvviso compaiono e colpiscono e all’improvviso si dileguano nel nulla, per poi comparire di nuovo. Sono inafferrabili. Grazie ad un efficientissimo sistema di trasmissione delle informazioni, i vari contingenti dell’esercito si compattano o si separano, avanzano o indietreggiano, a seconda dell’obiettivo che devono raggiungere. La forza e l’agilità dell’esercito mongolo sono tali da consentire a Gengis di conquistare, in pochi anni, non solo la Cina, ma anche gran parte dell’Asia, compresi alcuni paesi musulmani, giungendo alle porte dell’Europa orientale, il che rende possibile il contatto fra Oriente e Occidente, con conseguente scambio commerciale culturale fra i due mondi.
L’avanzata di Gengis è metodica e spietata. L’obiettivo è la conquista e il bottino. Ai suoi guerrieri distribuisce gloria, potere, ricchezza, schiavi e uno status sociale superiore, secondo quanto ha promesso. Le popolazioni assoggettate dai mongoli vengono considerate proprietà personale dei capi militari, che le sfruttano a loro arbitrio. I nemici che osano opporre resistenza vengono uccisi in massa. Si calcola, tanto per fare un esempio, che, nei due anni in cui invadono i paesi musulmani, i mongoli massacrano tre milioni di persone, una media di 4 mila persone al giorno. I prigionieri sono usati come forza lavoro, come soldati e come carne da macello, da mandare in prima linea a riempire coi loro corpi i fossati intorno alle mura delle città assediate (MAN 2006: 136).
Gengis Khan non è solo un grande condottiero, ma anche, cosa notevole per un analfabeta, un eccellente uomo di stato, un valido amministratore e un profondo conoscitore dell’animo umano. Consapevole di non disporre degli strumenti tecnici necessari ad amministrare il suo immenso impero, sa appropriarsi dei mezzi dei popoli sottomessi, primi fra tutti la scrittura e l’apparato burocratico. Non solo: comprende anche l’importanza di creare un diritto per garantire stabilità alle sue conquiste. Si tratta di un diritto fazioso come tutti i diritti che promanano da un vincitore, ma sufficiente a raggiungere lo scopo previsto.
Gengis attua anche una politica legata al merito e offre possibilità di carriera ai generali più valorosi e fedeli, e speciali privilegi ai diecimila guerrieri, che costituiscono la sua guardia del corpo e che sono scelti fra i figli degli ufficiali dell’esercito: è un modo per garantirsi la fedeltà di questi ultimi, dal momento che egli tiene, in qualche modo, in ostaggio i loro figli. Sa riconoscere l’uomo valoroso anche fra le classi più umili e perfino fra i nemici, tanto che chiunque (un musulmano, un cinese o un buddista, e perfino un pastore) può essere arruolato nell’esercito mongolo e divenire generale.
Gengis è anche un po’ sognatore e i primi successi gli fanno maturare la convinzione “di essere stato prescelto dalla divinità per il dominio del mondo” (MAN 2006: 207). In quanto “re per diritto divino”, egli impone a tutti i sudditi il Grande Yasa, un codice di leggi che costituisce la base sulla quale viene costruito il solido edificio dell’impero, che risulta composto di tanti principati, o canati, organizzati in modo feudale. Di più proprio i suoi non gli potrebbero chiedere.
Senza voler minimizzare le eccezionali qualità militari e umane di Gengis, dobbiamo dire però che egli è anche fortunato: se fosse arrivato qualche decennio dopo, quando si andranno diffondendo le armi da fuoco, non avrebbe avuto molte probabilità di successo. Ma così non è. Il momento è propizio e Gengis è un uomo troppo abile, concreto e intelligente, per lasciarsi scappare la ghiotta occasione che gli si offre. Sta anche qui la sua grandezza. Il bilancio della vita di Gengis non può essere più lusinghiero e a qualcuno che gli domanda quale sia per lui la più grande gioia per un uomo, risponde: “la più grande gioia nella vita d’un uomo è vincere i propri nemici e scacciarli innanzi a sé; inforcare i loro cavalli ben nutriti e rapir loro tutto ciò che possiedono; vedere in lacrime i volti delle persone che son loro care; stringere fra le braccia le loro mogli e le loro figlie” (ADRAVANTI 1984: 313).
Alcuni anni prima di morire, quando è all’apice della potenza e tutti si chinano dinanzi alla sua gloria, Gengis intuisce l’importanza di celebrare le sue imprese in modo che possano entrare nella storia e diventare immortali. Egli sa perfettamente che la forza fisica è un elemento instabile di dominio: prima o poi ti scontri con qualcuno che è più forte di te e devi uscire di scena. Ed ecco allora l’idea geniale: un racconto delle sue gesta, scritto da gente esperta, che egli paga perché lo dipinga come un essere divino, è quello che ci vuole per elevare il personaggio al di là della prosaicità della vita e proiettarlo in una dimensione idealistica tale da stimolare la fervida immaginazione del lettore e penetrare nei suoi sentimenti più profondi. Nel momento in cui Gengis commissiona il libro sulla storia segreta dei mongoli, egli sta consegnando ai posteri un documento che ne dovrà legittimare la figura e le imprese, a perenne memoria.
Alla morte di Gengis Khan, l’impero viene prima spartito fra i tre figli che gli sopravvivono, Tolui, Ogodai e Ciogatai, e, dopo due anni, riunito da Ogodai (1229-41), che assume il titolo di gran khan. Ogodai lancia alla conquista dell’Europa il nipote Batù, il quale si rivela un eccellente condottiero e giunge vittorioso alle porte di Vienna, quando viene fermato dallo stesso Ogodai. L’espansione mongola raggiunge il suo apogeo sotto il regno di Mongka Khan (1251-9), il cui fratello, Kubilai, riunisce sotto la propria autorità tutta la Cina, servendosi dell’apparato istituzionale e burocratico locale, ma preservando l’identità culturale e il potere politico della popolazione mongola, alla quale affida le più importanti cariche governative.
La coesione delle genti mongole poggia sui buoni rapporti che si stabiliscono fra i condottieri, anche grazie ad una prassi di equa divisione dei bottini di guerra. Il controllo di un dominio tanto vasto è agevolato dagli stretti e frequenti contatti tra Gran khan e khan locali, che sono resi possibili anche in virtù di un buon sistema viario, che i sovrani mongoli sfruttano per istituire un efficace servizio di corrieri, che percorrono a cavallo le praterie e i deserti dell’Asia centrale, e per dare un forte impulso ai commerci, che favoriscono l’arrivo di missionari e viaggiatori stranieri, fra cui Marco Polo, accolto alla corte di Kubilai Khan.
I mongoli vogliono conquistare anche il Giappone ma, per ben due volte, la loro flotta viene fermata, anche a causa di eventi atmosferici avversi, e, alla fine, rinunciano. Una sconfitta subita in Siria ad opera di un esercito egiziano formato da schiavi guerrieri (mamelucchi), indica che la loro forza espansiva si è esaurita. Adesso devono solo badare a godersi i frutti delle loro fatiche, ma non sono amati dalle popolazioni sottomesse. Inoltre, il codice imperiale si rivela insufficiente a fondere in una realtà politica omogenea le popolazioni via via annesse e la convivenza di diverse culture e religioni finisce per minare la stabilità dell’impero. A contatto con le raffinatezze della Cina, i successori di Kubilai perdono lo smalto guerriero e si abbandonano alle mollezze della vita di corte e a feroci lotte intestine per questioni di potere, che indeboliscono l’impero. Nelle popolazioni sottomesse cresce il malcontento. La classe degli ex funzionari confuciani è irritata dalle proscrizioni, che impediscono ai cinesi di ricoprire incarichi importanti, mentre il peso delle tasse aliena ai governanti l’appoggio della classe contadina.
A partire dal 1340 scoppiano insurrezioni in quasi tutte le province imperiali, nel corso di una delle quali, Zhu Yuanzhang (un monaco buddhista) riesce ad imporsi e ad estendere il suo potere su tutta la Cina e, col nome di Hung-wu, fonda la dinastia Ming (1368-1644). Ad occidente, invece, l’impero mongolo viene abbattuto da un sovrano di origine turco-mongola, detto Tamerlano.

21. L’impero ottomano

La creazione dell’impero si deve a Othman I (1281-1326), il quale, approfittando della decadenza delle potenze mongola e bizantina, inizia una politica di espansione e fonda una propria dinastia. L’inizio dell’impero può essere fatto coincidere con la caduta dell’importante città bizantina di Brusa (1326), che consacra gli ottomani come la maggiore potenza dell’Asia Minore. Nel 1334 il sultano Orkhan istituisce uno speciale corpo di fanteria formato da guerrieri speciali, i giannizzeri, reclutati fra i giovani cristiani nei paesi conquistati in ragione del 20% (cioè un figlio su cinque), che vengono educati nella religione islamica e nell’arte della guerra. Non possono sposarsi, né esercitare altre attività lavorative. Sono soldati di professione col compito, inizialmente, di presidiare il palazzo del sultano. Col tempo il loro numero aumenta, raggiungendo sotto Maometto II (1444-81) i duecentomila effettivi e costituendo la parte migliore dell’esercito ottomano. Dopo la conquista di Costantinopoli (1453) i turchi ottomani minacciano il Nordafrica e l’Europa.

20. I bizantini

La dinastia macedone viene rovesciata con un colpo di stato da Isacco Comneno (1057). Si apre così un periodo di lotte intestine per il potere, che indebolisce l’impero e mette a nudo i fattori di crisi sociale, precedentemente tenuti sotto controllo dal potere centrale. Un ulteriore fattore di crisi è costituito dall’arrivo dei crociati che, a causa della loro sete di conquista, non si lasciano manipolare dall’imperatore e finiscono per rappresentare una seria minaccia per Costantinopoli. Andronico Comneno (1183-85) si fa promotore di un’improbabile riforma sociale tesa ad abbattere la grande proprietà fondiaria e a sollevare le misere condizioni dei contadini, ma l’aristocrazia insorge e Andronico viene ucciso. Inizia così un ventennio di gravi disordini sociali, che culmina con l’occupazione di Costantinopoli da parte dei crociati (1204). Qualche tempo dopo Costantinopoli viene riconquistata da Michele Paleologo (1261), che fonda una nuova dinastia, l’ultima, prima della caduta.
L’impero non dispone di risorse economiche sufficienti a mantenere la flotta e pagare i soldati mercenari, che sono sempre sul punto di ribellarsi. Il nemico del momento è la potenza ottomana, che avanza minacciosa. Invano l’imperatore chiede aiuto all’Europa occidentale: Costantinopoli deve contare solo sulle sue solide mura, che in passato hanno mostrato di poter resistere agli attacchi più duri, solo che adesso qualcuno ha inventato la polvere da sparo e qualcun altro ha costruito i primi cannoni. I bizantini non ci fanno gran caso, ma il sultano sì e, dopo aver osservato con vivo interesse i disegni che l’ungherese Mastro Urban gli sottopone, dà ordine di costruirne un certo numero di esemplari. Sono degli autentici mostri, capaci di lanciare una palla di pietra di oltre sei quintali ad una distanza di oltre un miglio, ad un ritmo di 6-7 colpi al giorno; occorrono sessanta buoi per trasportarlo (DURSHMIED 2006: 48ss). Grazie anche a questa possente arma di assedio Maometto II (1451-81) entra in Costantinopoli e decreta la fine del suo millenario impero (1453). Molti bizantini fuggono e alcuni si rifugiano in Italia portando con sé i loro manoscritti e la loro cultura e contribuendo così all’esplosione del Rinascimento.

19. I mamelucchi

Sono schiavi originari dal Caucaso e dall’Asia centrali. Portati in Egitto dagli arabi Ayyubidi, convertiti all’Islam e liberati, essi riescono a deporre i loro padroni e a formare una casta militare, che governerà l’Egitto per più di due secoli (1250-1517).

18. Gli ebrei

Verso il 1055 i Turchi Selgiucidi conquistano la Siria e la Palestina, che passano così sotto la sfera d’influenza sunnita. In questo periodo Gerusalemme si abbellisce e si circonda di nuove mura, divenendo una città di rilievo internazionale, visitata da pellegrini che provengono da tutto il mondo. È questa la città che vedono i crociati nel giugno del 1099 e che conquistano sterminandone la popolazione. Poi, in base alla legge di conquista emanata lo stesso anno, si stabilisce che chi ha preso parte alla crociata può svincolarsi dalla gerarchia feudale in patria e diventare proprietario terriero o padrone di una casa in Terra Santa. Così Gerusalemme comincia a ripopolarsi. I crociati estendono la loro dominazione su tutta la Palestina e la conservano per quasi due secoli, fino a quando vengono parzialmente allontanati da Saladino nel 1187 e definitivamente dai Mamelucchi nel 1291.
In questo periodo gli ebrei vengono perseguitati e sterminati e quasi scompaiono del tutto da questa terra. Molti ebrei emigrano dalla Palestina in Spagna e in altri paesi d’Europa, dove trovano ostilità. Ovunque, gli Ebrei tendono a raggrupparsi volontariamente in alcuni quartieri (i futuri ghetti), dove sono lasciati relativamente liberi di esercitare il loro culto e di perpetuare la loro peculiare cultura, che, dai tempi di Mosè Maimonide (intorno al 1160), è ormai chiaramente definita. Il credo ebraico rimane centrato sulla fede in un unico Dio Creatore, nella parola dei profeti e nell’attesa del Messia, nella fede nella Promessa e nella necessità di osservare la Legge per poterla avverare. A differenza dei tempi di Mosè, la nuova legge non è più quella delle tavole del Sinai, ma una legge prodotta dall’ebraismo rabbinico e che ha trovato forma nella Mishnah e nel Talmud, codici etico-legali fondati sui valori della fede biblica e sulla tradizione ebraica reinterpretate in chiave moderna.
Le crociate alimentano un clima di odio nei confronti dei “deicidi” e ciò è causa di numerosi massacri ad opera di folle esaltate. Nel 1096 una banda di crociati germanici massacra le comunità ebraiche di Spira, Worms e Magonza: sono i primi pogrom su larga scala in Europa, che sono seguiti da molti altri (Germania 1147, 1336; Francia e Inghilterra 1189-90; Francia 1320; Spagna 1391, 1412). In alcuni paesi i governi ricorrrono a periodiche espulsioni degli ebrei (Francia 1182, 1306, 1394; Inghilterra 1210, 1290; Spagna 1492; Portogallo 1496), con la duplice conseguenza di impossessarsi delle loro ricchezze e di liberare i debitori dall’obbligo di restituire il denaro avuto in prestito dagli stessi ebrei.
Dopo la cacciata dei crociati la Palestina diviene un paese quasi esclusivamente musulmano e arabofono, mentre Gerusalemme assurge a terza città santa dell’Islam: cristiani ed ebrei ne costituiscono solo una piccola minoranza, nonostante il comportamento clemente del Saladino, che risparmia i cristiani e consente ai fuoriusciti ebrei di fare ritorno nella loro patria. Sotto i mamelucchi, la Palestina attraversa un periodo tranquillo, anche se è un po’ abbandonata a se stessa e la sua economia è alquanto depressa. In essa si rifugiano molti ebrei, che sono espulsi dalla Spagna cristiana ai tempi della reconquista. Il medico di Toledo, Yehudah ha-Lewi, comincia a pensare che il vero posto degli ebrei sparsi nel mondo sia la terra dei loro padri. È l’inizio del sionismo.

17. I russi

Il re di Kiev Vladimiro I (980-1015) sposa la sorella dell’imperatore bizantino e si fa battezzare (988), così che il cristianesimo diventa religione di Stato, mentre la chiesa russa acquista il diritto di avere un proprio metropolita, sia pure subordinato al patriarca di Costantinopoli. Il sovrano si dispone a sostenere economicamente la chiesa in cambio del suo appoggio politico e del suo impegno ad assumere una funzione educatrice e culturale del popolo, cosa che avviene con successo. Il regno di Kiev cessa di esistere nel 1240 sotto l’assalto dei Tatari, e tutta la Russia sud-orientale diviene uno Stato mongolo, la cosiddetta Orda d’Oro. I capi tatari si lasciano penetrare dalla cultura islamica e bizantina, ma lasciano i principi russi, loro vassalli, liberi di conservare i loro costumi e la loro religione.
Mentre Kiev cade, il principato di Mosca, che al momento è insignificante, riesce a mantenere buoni rapporti coi Tatari, cui versa un tributo, per poi avviarsi verso una rapida ascesa, che è favorita da un indebolimento dei mongoli. Nel 1326 il metropolita Vladimiro sposta la sua sede da Kiev a Mosca, che diviene così la capitale religiosa e politica della Russia.
L’Orda d’Oro si indebolisce sotto i colpi del Tamerlano (1395), frammentandosi in diversi canati. In un primo tempo, Mosca cerca di costruire e difendere la sua egemonia, poi, sotto il regno di Ivan III (1462-1505), intraprende una politica di annessione e stabilisce relazioni diplomatiche internazionali.

16. I norvegesi

Fino al IX secolo, la Norvegia è divisa in piccoli regni che si fanno guerra fra loro. Un primo tentativo di unificazione (872) fallisce. Ci riprova Olaf il Santo (1015-28), che introduce il cristianesimo nel paese, ma viene sconfitto da Canuto il Grande e, per qualche anno, la Norvegia passa sotto il dominio danese, finché Magnus I il Buono, figlio di Olaf, riconquista il trono (1035). Ma già, alla fine del secolo, la Norvegia è dilaniata da violente lotte dinastiche, cui pone fine Sverre, un abile personaggio, che usurpa il trono del legittimo re Magnus Erlingsson e governa il paese per diversi anni.
Dalla letteratura che ci è pervenuta su questi eventi traspaiono le reali qualità di Sverre e le sue doti di avveduto e astuto politico, che sa sfruttare le occasioni a lui favorevoli per imporsi come valido pretendente al trono, sa motivare i soldati alla battaglia, promettendo loro premi e bottini in caso di vittoria, sa circondarsi di validi funzionari, cui affida il compito di suddividere in regioni il paese e amministrarlo. Ma è pur sempre un usurpatore e, come tale, avverte il bisogno di una legittimazione, che, per essere solida, non può limitarsi a semplici rapporti di forza, per loro natura estremamente variabili e molto dispendiosi. Ecco allora che Sverre ricorre ad uno stratagemma vecchio quanto la storia: dice che è stato prescelto da Dio e che è stato solo uno strumento della sua volontà (GUREVIČ 1996: 90-104). La cosa in qualche modo funziona ancora, anche se non sempre e non per sempre. È così che hanno preso origine alcune dinastie nel corso della storia: dopo la vittoria, il più forte giustifica il suo potere riconducendolo a Dio.

15. Gli italiani

Approfittando del caos che si è venuto a determinate in Italia dopo la caduta dell’impero carolingio, Ottone I di Sassonia si fa incoronare imperatore a Roma (962) e, per porre fine allo scandalo di pati corrotti, si fa riconoscere il diritto di intervenire nell’elezione del pontefice, ma la sua presenza discontinua in Italia gli impedisce di esercitare un potere forte. Non riuscendo a tenere a bada i riottosi vassalli, gli imperatori pensano bene di favorire lo sviluppo di città, che si emancipano dai feudatari e si costiuiscono in liberi comuni. Mentre ciò accade nel Nord dell’Italia, il Sud viene occupato dai Normanni.
Il decreto contro le investiture laiche emanato da Gregorio VII (1075) indebolisce l’impero, che però si riprende grazie al matrimonio di Enrico VI, figlio del Barbarossa, con la normanna Costanza d’Altavilla (1186), che offre all’imperatore anche il controllo dell’Italia meridionale, mentre il papa rimane come stretto in una morsa. Allo scopo di liberarsi da questa posizione di debolezza, papa Clemente V si appoggia a Carlo d’Angiò, il quale interviene nel meridione d’Italia e pone fine alla dinastia degli Hohenstaufen (1268), anche se non riesce ad unificare l’intera penisola come vorrebbe.
Il papa adesso si sente più forte e può dedicarsi ad una pratica che lo appassiona: organizzare crociate. Le crociate avvantaggiano le Repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), che incrementano i loro scambi commerciali e si arricchiscono. Intanto l’esilio avignonese (1309-78) fa scoprire al papa che, se l’impero si è indebolito, la Francia si è rafforzata al punto da schiacciare lo stesso papato. Da parte loro, gli imperatori non sono ancora rassegnati ad un ruolo di secondo piano e scendono in Italia, prima con Enrico VII (1310-3), poi con Lodovico il Bavaro (1327-30), ma senza successo.
In questo clima di generale insicurezza, le istituzioni comunali cominciano ad apparire inadeguate e ciò offre l’occazione ad alcuni signori di conquistare il potere, talvolta con la più assoluta manca di scrupoli: nascono così, all’insegna della violenza, le Signorie a Milano, Mantova, Rimini, Perugia, Ferrara e Verona. Al Sud intanto, gli Angò vengono cacciati e gli aragonesi riprendono il potere (1442). La fine del XV secolo vede un’Italia frammentata e, dunque, debole: il Sud è in mano agli aragonesi; il Centro è costituito dallo Stato pontificio; il Nord è diviso in Signorie e Repubbliche marinare.

14. I portoghesi

La storia del Portogallo ricorda quella della Spagna. Anticamente abitato da iberi e lusitani, subisce l’occupazione di romani, alani, svevi, visigoti, arabi e, infine, del Leòn, da cui si rende indipendente sotto Alfonso I il Conquistatore (1128-85), che assume io titolo di re e governa sotto la protezione del papa, al quale versa un tributo annuo. Sotto il regno di Dionigi (1279-1325), il paese attraversa un periodo di crescita, che è segnato da uno sviluppo delle città, dell’industria e del commercio, dalla creazione di una flotta e dalla fondazione dell’università di Lisbona (1291). Qualche tempo dopo, con Giovanni I (1385-1433), il Portogallo inizia la sua grande avventura marittima e coloniale, dove si trova a competere con la Spagna. Il figlio di Giovanni I, Enrico il Navigatore (1394-1460) promuove nuove esplorazioni lungo le coste atlantiche africane e, mezzo secolo prima di Colombo, arrivano a Lisbona i primi africani, ciò che segna l’inizio della tratta degli schiavi neri.

13. Gli spagnoli

Nell’XI secolo, i regni cristiani della Spagna si sentono tanto forti da iniziare la Riconquista dei territori occupati dagli arabi. L’opera inizia sotto Alfonso VI (1065-1109) re di Castiglia, cui si aggiungono qualche anno dopo i re di Aragona, e giunge ad un avanzato stato di compimento verso il 1270, allorché in mano agli arabi resta solo il piccolo regno di Granada. Nonostante la Riconquista e l’unità religiosa, la Spagna resta un paese diviso e ciascun regno ha la sua storia.
A spiccare è l’intraprendenza degli aragonesi, che intervengono in Italia dopo i Vespri siciliani (1282) e infine si assicurano il Regno di Napoli (1442). Poi, il matrimonio fra Ferdinando d’Aragona con Isabella di Castiglia (1469) pone le premesse per l’unità della Spagna. La fondazione dell’Inquisizione (1480) porterà all’espulsione di molti ebrei e musulmani e alla completa cristianizzazione del paese, mentre la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492) apre nuove prospettive di conquista e di ricchezza.

12. Gli inglesi

Alla dinastia normanna (1066-1154) succede quella dei Plantageneti (1154-1399). Essi possiedono un vasto domino, anche sul continente e sulla Francia, e questo non è certo gradito dai francesi, che approfittano di un periodo di debolezza dei sovrani inglesi per riprendersi le loro terre. Bisogna aspettare il regno di Edoardo III (1327-77) per assistente ad una potente rinascita dello stato inglese e del suo sentimento nazionale, che si rafforzerà nel lungo conflitto con la Francia (guerra dei Cent’anni).

11. I tedeschi

Nel corso del X secolo, il potere regale germanico è debole nei confronti dei potenti duchi di Franconia, Svevia, Baviera, e Lotaringia. Allo scopo di assicurarsi un appoggio contro di loro, Ottone I (963-73) assegna investiture temporali a vescovi e abati, divenendo così il vero capo della chiesa tedesca. Nel 962 si fa incoronare a Roma e fonda il Sacro Romano Impero. Vietando le investiture laiche (1075), Gregorio VII vibra un duro colpo all’imperatore, il cui potere effettivo è basato sul controllo della chiesa tedesca, e apre un periodo difficile per l’impero, che non migliora dopo l’incoronazione di Corrado III (1138-52), fondatore della dinastia degli Hohenstaufen. In Germania l’autorità imperiale resta sempre fragile, anche perché, volendo salvaguardare la propria indipendenza, i potenti duchi tedeschi sono soliti elevare al trono imperiale personaggi mediocri.
A partire dalla metà del XV secolo, gli Asburgo occupano ininterrottamente il trono imperiale e, grazie ad un’accorta e fortunata politica matrimoniale, pongono le basi per diventare la dinastia più potente d’Europa. È a causa degli interessi ereditari dei suoi imperatori che la Germania viene trascinata in un lungo conflitto con la Francia, che durerà quasi tre secoli.

10. I francesi

Ugo Capeto (987-96) non è un re, ma un semplice feudatario al quale viene riconosciuto solo un primato simbolico nella parte occidentale della Francia, che, in realtà, è formata da alcuni grandi feudi indipendenti. Ciò nonostante, Capeto riesce ad introdurre il costume di consacrare il figlio maggiore essendo ancora in vita, e questo contribuirà all’affermazione della monarchia, che avverrà alcuni anni dopo, sotto Luigi VI il Grosso (1108-37). Ma la monarchia rimane debole e rischia di essere schiacciata sotto la soverchiante potenza dei sovrani inglesi, i quali possiedono già alcune regioni della Francia (Normandia, Angiò, Maine, Turingia e Aquitania). In questo frangente, i sovrani francesi salvano la corona anche grazie al prezioso aiuto della chiesa. Poi, approfittando di un momento di debolezza della corona inglese, iniziano la riscossa e, sotto Filippo II Augusto (1180-1223) e con la complicità del papa, confiscano quasi tutte le regioni francesi dell’Inghilterra. L’unità nazionale della Francia procede e si consolida negli anni avvenire e giunge a compimento sotto Luigi IX il Santo (1226-70).
Nel 1328, alla morte di Carlo IV, la linea diretta dei Capetingi si estingue. In teoria, l’erede al trono sarebbe proprio il re d’Inghilterra, ma il sentimento nazionale dei francesi è così forte da rifiutare un re straniero e offrono la corona a Filippo VI di Valois (1328-50), fatto che scatena la guerra dei Cent’anni (1337-1453).

09.14. Evoluzione demografica in Europa

Si stimano 48 milioni di abitanti nel 1100, 61 milioni nel 1200, 73 milioni nel 1300, 51 milioni nel 1350, 45 milioni nel 1400, 69 milioni nel 1500, 80 milioni nel 1600.

09.13. Le rivolte dei poveri

Mentre si va diffondendo lo spirito capitalistico e, con esso, il fenomeno della concentrazione di ricchezze nelle mani di poche famiglie, destinate a formare un nuovo ceto sociale, quello dell’alta borghesia, le masse contadine devono fare i conti con una miseria dilagante. A partire dall’XI secolo e per tutto il medioevo, la storia d’Europa è segnata da numerose rivolte, spesso colorate da un’ideologia di tipo religioso, delle classi plebee nei confronti di quelle possidenti.
Una di queste rivolte, che interessa principalmente il nord-ovest dell’Italia, si ispira alle idee di fra’ Dolcino (1260-1307) e dà vita al cosiddetto movimento degli apostolici. Dolcino vorrebbe la più completa eguaglianza sociale, la distribuzione ai contadini dei beni della chiesa e il rifiuto di ogni autorità e gerarchia sociale. Di fronte a tale pericolo, vescovi e signori attuano una dura repressione militare, che si conclude con la tortura e l’esecuzione capitale di Dolcino. Nel 1328 una rivolta armata di contadini delle Fiandre viene soffocata nel sangue dalla cavalleria francese. Lo stesso avviene nelle regioni francesi della Piccardia, della Normandia e della Champagne (1358). A Firenze sono i salariati della manifattura laniera, i cosiddetti “ciompi”, che si sollevano, ma nulla possono contro la reazione della borghesia, che ne giustizia i capi e ne scioglie il movimento (1378). In Inghilterra si sollevano i lollardi (1381), che chiedono l’abolizione dei privilegi feudali e della servitù, ma anch’essi finiscono male. Rivolte popolari si registrano anche in Germania, Spagna, Polonia e in altre regioni europee e tutte si concludono con sconfitte, più o meno pesanti. Pesanti, ovviamente, per i contadini.

09.12. La società medievale

È una società stratificata, il cui modello è ben rappresentato dall’organizzazione del monastero, che ha al centro la residenza di Dio, ossia il santuario, accanto ad esso, isolata, la casa dell’abate, più distante l’abitazione dei monaci e, ancora più lontane, le altre abitazioni. “L’abate è, di fatto, il signore” (DUBY 1993: 43). Non dissimile nella sua sostanza, anche se diversa nella struttura in ragione delle sue diverse funzioni, è la residenza aristocratica. Qui al centro c’è “una sola coppia”, la coppia dei signori, i quali, dovendo combattere il male con la forza piuttosto che con la preghiera, badano prevalentemente a fortificare la casa, a scavarvi un fossato tutt’intorno, a elevare una cinta muraria e una torre, simbolo della potenza, mentre la cappella viene relegata ai margini. In entrambi i casi un gruppo di persone e di famiglie (i servitori) è riunito attorno alla figura di un capo (il padrone). Tutt’intorno al palazzo o al monastero si possono scorgere le abitazioni delle famiglie più umili, anch’esse riunite attorno ad un’altra figura di capo, il capofamiglia. Una società duale dunque con uno scopo comune, che rispecchia l’ordine celeste: un solo padre, Dio, e le sue creature, figli suoi, che servono alla sua gloria (DUBY 1993: 49-57).
La gente comune vive in piccole case, che sono per lo più composte da due ambienti: una zona giorno con cucina e una camera da letto, dove dormono tutti (cfr. RONCIÈRE 1993: 130ss). E non si tratta di una semplice moda: “dormire in tanti era considerato semplicemente una condizione di miseria” (CONTAMINE 1993: 420). La coscienza della propria individualità è ancora poco sviluppata: “in epoca feudale, all’interno delle grandi dimore, non è mai previsto un posto per l’isolamento individuale” (DUBY 1993: 426). “I segni evidenti delle conquiste di un’autonomia personale si moltiplicano nel corso del secolo XII” (DUBY 1993: 429).

09.11. Le origini del capitalismo

Non c’è accordo fra gli studiosi circa la data di nascita del C. Secondo Henri Perenne, lo spirito capitalistico fa il suo ingresso in Europa fra il XII e il XIII secolo con l’affermarsi della figura del mercante, che trasporta le sue merci per mezzo di carovane difese da uomini armati. Le differenze col C. moderno sono solo quantitative e tecniche, perché mancano le condizioni strutturali favorevoli, come strade, mezzi di trasporto e sicurezza. Diversa è l’opinione di Max Weber, che fa risalire l’origine del C. alla particolare concezione religiosa del calvinismo. Secondo Werner Sombart, invece, non si può parlare di C. in epoca medievale, quando ancora non si è affermata la figura dell’imprenditore e anche i più grandi commercianti sono praticamente indistinguibili da un artigiano. Diverse sono le argomentazioni, ma identica è la linea sostenuta da Amintore Fanfani, secondo il quale è l’etica cristiana, che è così profondamente diffusa nel periodo medievale ad opporsi all’affermazione del C. Secondo questo punto di vista, la data di nascita del C. si colloca nella seconda metà del Settecento, all’epoca della Rivoluzione industriale.

09.10. Il papato nella seconda metà del XV secolo

Il papato risente di questa temperie culturale e s’adegua. Il primo papa rinascimentale può essere considerato Niccolo V (1447-55). Egli amministra il suo regno come gli altri signori coevi e, come loro, si distingue per il suo mecenatismo. È lui che crea la biblioteca vaticana. È lui che dà disposizione a Leon Battista Alberti di edificare la basilica di S. Pietro e di rinnovare l’urbanistica del Vaticano. Oltre ad abbellire la città, i papi non dimenticano di arricchire se stessi e favorire i propri parenti. Adesso, ancora di più rispetto al passato, diventare papa è visto come una ghiotta occasione per elevare la condizione propria e quella dei propri parenti, un vero e proprio affare.
Callisto III (1455-8) riporta in auge la politica nepotista, che accomunerà tutti i papi di questo periodo.
Mentre si dichiara contrario ad ogni forma di conciliarismo, Pio II (1458-64) si comporra da sovrano assoluto, tanto da poter essere considerato il primo “papa-re”.
Non è da meno Sisto IV (1464-71), il cui nepotismo, il gusto del fasto e i continui interventi nella politica italiana, fanno di lui un tipico rappesentante del papa rinascimentale.
In Innocenzo VIII (1484-92) prevalgono invece le doti del mecenate: sotto di lui operano Pinturicchio, Mantegna, Filippo Lippi e il Perugino e la curia diventa uno dei centri artistici più attivi del tempo.
Il nepotismo ritorna con Alessandro VI (1492-1503) a conferma di un papato, che è intento più a questioni temporali che spirituali. Se pensiamo all’ammonimento di Cristo “lasciate i vostri beni e seguitemi”, non possiamo non constatare che i papi fanno esattamente il contrario, macchiandosi, quanto meno, del reato di concussione e di simonia!

09.8. L’Umanesimo

È in questo periodo che esplode la civiltà rinascimentale e si afferma quella nuova mentalità, che passerà alla storia col nome di Umanesimo e che capovolgerà il modo di pensare medievale. Come origine e come conseguenza di questo cambiamento c’è l’affermazione della borghesia, grazie alla quale diviene evidente che, grazie al lavoro e lo studio, chiunque può migliorare le proprie condizioni di vita e che non c’è alcun ruolo sociale predeterminato alla nascita per volere di Dio. Così, mentre nell’alto medioevo si riteneva che ciascuno avesse un posto fisso nella società, stabilito per legge divina, con l’umanesimo si comincia a rivolgere lo sguardo verso l’individuo, le sue potenzialità e le sue responsabilità, ed è questa la novità di maggior rilievo. Lì l’individuo rimaneva sovrastato e nascosto in un ordine cosmico che culminava in Dio, qui l’individuo rappresenta il principale protagonista della storia, l’artefice del proprio destino, il centro e la misura di tutte le cose. L’umanista interpreta la fede in maniera intima e personale e rimane aperto alla tolleranza religiosa, contesta le affermazioni incomprensibili, o che vengono imposte dall’alto, e crede che debba essere il singolo uomo a ricercare la verità. Lo stesso Erasmo, benché sia sacerdote, attribuisce ai sacramenti un posto di secondo piano ed è contrario ad una religiosità dogmatica. È come se l’uomo cominciasse a vedere il mondo con occhi nuovi o da una nuova prospettiva, che lo spingono a tentare strade nuove, ad elevarsi ed esaltarsi in cerca di gloria e ricchezza.
L’accresciuta fiducia in se stessi fa sì che aumenta il numero di coloro che appaiono disposti ad indebitarsi pur di finanziare un proprio progetto, che può essere della più disparata tipologia, come l’apertura di una bottega artigiana, l’avviamento di un’attività commerciale e perfino l’armamento di una soldatesca o di una piccola flotta a scopi di pirateria. Sale, di conseguenza, la domanda di prestiti e, con essa, si va affermando la figura dell’usuraio e del banchiere, di quanti cioè lavorano facendo circolare danaro. Inizia così quella competizione fra individui, che fa numerose vittime, ma riesce a portare qualcuno alle stelle. Vi sono dei navigatori, che scoprono e conquistano nuove terre, dei pirati che incamerano sostanziosi bottini di guerra, dei commercianti che guadagnano patrimoni ragguardevoli e dei banchieri così facoltosi da poter finanziare le politiche di molti sovrani e pontefici. Alcuni di questi nuovi ricchi conquistano posti di potere e si elevano socialmente tanto da ottenere la concessione di titoli nobiliari.
Ritenendo il medioevo una fase storica primitiva e barbarica e un periodo da dimenticare, gli umanisti lo saltano a piè pari e ripartono dai classici greci e latini, nella convinzione che essi rappresentino il massimo livello culturale raggiunto dall’uomo. Nasce così la prima civiltà propriamente moderna, basata cioè non più su una visione religiosa della società, bensì su princìpi essenzialmente secolari e laici. In definitiva, l’umanesimo aspira ad essere la storia di individui, di uomini, di persone compiute e autonome, che costruiscono il proprio progetto di vita in piena libertà e responsabilità, anche se nella realtà esso rimarrà circoscritto ad una ristretta elite intellettuale e non diverrà mai un progetto politico compiuto e attuato. È su questo “individualismo”, per quanto limitato, che l’Europa costruisce il suo primato nel mondo (MOUSNIER 1953: 3-6).
Nell’animato dibattito rinascimentale sulle diverse forme di governo, la maggioranza dei consensi continua ad andare in direzione dell’impero universale e della monarchia assoluta, anche se non mancano segnali a favore della monarchia parlamentare, della repubblica e perfino di una qualche forma limitata di democrazia, come quella censitaria, nella convinzione che il sovrano da solo non è garanzia di buon governo e che può ben governare solo chi è adeguatamente preparato allo scopo. La democrazia popolare diretta occupa l’ultimo posto nelle preferenze, essendo opinione comune che il popolo sia intrinsecamente incapace di ben autogovernarsi e che, pertanto, ci sia bisogno della guida di una figura, cui delegare tutti i poteri.

09.7. Guerre e denaro

A partire dalla fine del XV secolo, “la storia parla di eserciti permanenti” (ZELLER 1976: 10) e quindi di guerre fra Stati, fra popoli, fra nazioni che competono per il predominio e l’egemonia. I soli Stati che contano sono quelli che possono contare su un alto potenziale demografico e su grandi ricchezze, sì da potersi permettere un numeroso e potente esercito. Ai soldati che combattono viene prospettata la possibilità di far carriera nell’esercito o, quanto meno, di poter mettere le mani sui beni dei nemici vinti. Per questo, quando si prende d’assalto una città, il saccheggio è la regola e difficilmente si potrebbe mantenere l’obbedienza e la disciplina nelle truppe se si disattende questa loro aspettativa.
Fra le numerose guerre fra Stati, che scoppiano per questioni economiche e di potere, la più lunga è quella che oppone la Francia all’Inghilterra e che passerà alla storia come la guerra dei Cento anni, anche se in realtà si protrarrà, benché non in modo continuato, per un periodo più lungo (1334-1453). I pretesti che danno il via alle ostilità sono l’estinzione della dinastia capetingia e la rivendicazione alla corona di Francia da parte di Edoardo III d’Inghilterra. Il motivo vero è la volontà di questi di imporre la propria egemonia in Europa. Alla fine del conflitto questo tentativo si rivelerà vano e gli inglesi dovranno accettare la realtà di una monarchia francese solida e forte e rinunciare alle loro mire nazionalistiche in Europa rivolgendole verso i mari. Anche gli Stati regionali italiani lottano a lungo l’uno contro l’altro, ma, poiché nessuno riesce a prevalere sugli altri e aleggiando la paura nei confronti di turchi e francesi, si giunge infine alla pace di Lodi (1454), in seguito alla quale l’Italia potrà godere di un quarantennio di tranquillità.

09.6. Il papato nella prima metà del XV secolo: Grande e Piccolo Scisma

All’indomani della cattività avignonese, che ha rappresentato un declassamento del potere pontificio a livello locale e un suo asservimento agli interessi del regno francese, si apre per il papato un nuovo non meno doloroso capitolo, che viene chiamato Scisma d’Occidente (per distinguerlo da quello d’Oriente del 1054) o “Grande scisma” (1378-1417) e che è caratteroizzato dalla coesistenza di due curie pontificie indipendenti, che si scomunicano a vicenda e competono per il potere. Al culmine di questo periodo fanno la loro comparsa le eresie di Wycliff e di Hus, che rifiutano la tradizione papista, mentre si vanno diffondendo le idee dei conciliaristi, cioè di coloro che asseriscono la superiorità dei vescovi riuniti in concilio nei confronti del papa. Approvata nel concilio di Pisa (1409) e confermata nel concilio di Costanza (1414-8), la teoria conciliarista viene contestata dal papa Eugenio IV (1431-47), in opposizione al quale, però, i vescovi eleggono un antipapa nella persona di Felice V (1439), aprendo il cosiddetto “Piccolo scisma”, che si conclude dopo dieci anni con l’abdicazione di Felice (1449).

09.5. Le monarchie nazionali

A partire dal 1200, mentre l’Italia e la Germania rimangono divise, in alcune regioni europee (Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo) avviene che un solo feudatario riesce a prevalere su gli altri, divenendo signore supremo di un grande territorio. Nel XIX secolo si parlerà di «Stato nazionale» in presenza di un unico popolo, che parla una lingua propria, che dispone di un proprio ordinamento politico, un proprio apparato burocratico, un proprio sistema giudiziario e un proprio esercito. Nel XIII secolo non è ancora esattamente così, e una nazione può essere anche composta da gruppi etnici diversi, ciascuno provvisto di proprie leggi e proprie tradizioni, accomunati solo dal fatto di riconoscersi sudditi del medesimo re o signore. Non per caso, le forme di governo più comuni dei primi Stati nazionali sono monarchie.
Le monarchie nazionali rappresentano un fatto nuovo nella storia, essendo diverse tanto dai regni e dagli imperi del passato, che comprendevano popoli diversi, generalmente di tipo tribale, quanto dall’ordinamento feudale, che era, come abbiamo detto, un tipo di rapporto tra signori, ciascuno detentore di poteri assoluti nel proprio territorio, ma legato da vincoli di doveri nei confronti di un signore di livello superiore. Nella monarchia nazionale, il Re è il capo assoluto, potremmo dire anche il padrone, di un grande popolo “nazionale”, allo stesso modo in cui il Signore o il Principe è il capo assoluto di una piccola comunità cittadina o di un modesto territorio regionale. Il re esercita un potere sovrano e patrimoniale su un territorio e sulle popolazioni ivi residenti. Il regno è una sua proprietà privata, che egli tende a consolidare, a proteggere da eventuali pericoli, esterni o interni, e ad ingrandire. Gli interessi del re coincidono con quelli del regno e tendono a tradursi in una lingua, in una moneta, in un apparato amministrativo e militare, in una politica economica e in una chiesa nazionali o, se preferiamo, in una cultura nazionale, che costituisce il patrimonio comune di quelle popolazioni, ciò che lo caratterizza e lo rappresenta.
Rispetto ai Signori italiani, i sovrani di grandi Stati dispongono di mezzi economici e militari ben più consistenti, il che consente loro di esprimere una politica di potenza e di ostentazione ad un livello superiore, ciò che li induce a favorire le scoperte geografiche, con tutte le conseguenze che esse comportano. Nel 1493 papa Alessandro VI, su richiesta dei re cattolici, traccia una linea di demarcazione sull’Atlantico, separando così le zone d’influenza di Portogallo e Spagna: è una sorta di pacifica spartizione del mondo fra due regni in forte espansione. Grazie a questo nuovo spirito, si vanno diffondendo la ruota idraulica e il mulino a vento, entrambi in grado di svolgere in modo semplice il lavoro di parecchi uomini e di assicurare ai proprietari lauti guadagni, e si comincia anche a fare sempre più ricorso a personale esperto nelle materie tecniche, ossia gli ingegneri.
Nella monarchia nazionale si trovano a convivere tre principali componenti sociali, ciascuna avente interessi diversi e spesso contrapposti: da un lato c’è il re, che tende ad accentrare tutto il potere nelle proprie mani, dall’altro i nobili feudatari, la cui ricchezza è basata sulla proprietà terriera, i quali vogliono mantenere la propria indipendenza dal re. La terza forza sociale è costituita dalla borghesia, che aspira a partecipare al potere politico, insieme ai nobili. Generalmente i re riescono a prevalere nella lotta contro la nobiltà feudale proprio grazie all’appoggio della borghesia e possono consolidare il proprio potere, ma spesso essi non si accontentano di imporsi all’interno del proprio Stato: vogliono anche estendere la propria supremazia su altri re e altri Stati.

09.4. Capitani di Ventura

Abbiamo già osservato che nobili e feudatari siano soliti lasciare in eredità i propri beni al primogenito, allo scopo di non frammentare il patrimonio di famiglia, mentre, per i figli cadetti, sono previste soluzioni consolatorie di ripiego, che non sempre però risultano appaganti. Perciò, molti giovani membri di nobile stirpe vengono attratti dalla carriera militare. Chi si distingue nel campo di battaglia ha l’opportunità di conquistare potere e ricchezze e, perfino, di fondare una nuova dinastia.
La figura del capitano di ventura nasce in un’epoca in cui i vari signori italici sono soliti servirsi, per le proprie necessità, di truppe mercenarie che, inizialmente, provengono dalla Germania e sono guidate da un condottiero tedesco. I giovani rampolli italici dapprima si arruolano in una di queste masnade, poi qualcuno decide di mettersi in proprio, diventando egli stesso capitano o condottiero. Il capitano è come un libero imprenditore, che si vende al migliore offerente. Egli sceglie i suoi uomini e offre loro una paga, patteggia il suo ingaggio con qualche signore e firma un contratto, chiamato “condotta” (da qui il nome di condottiero). In mancanza di valide offerte, il capitano di ventura, dovendo comunque pagare i suoi soldati, non esita a ricorrere a razzie e rapine.
Se numerosi sono gli aspiranti alla gloria, solo pochi riescono veramente ad emergere e ad affermarsi come personaggi di prima grandezza: i più si devono accontentare di ruoli marginali e di poco conto, benché sufficientemente remunerativi sotto il profilo economico. In ogni caso, tranne rare eccezioni, i capitani di ventura sono molto ricchi, e non solo in denaro. A volte, quando il signore committente non è in grado di pagarli, li compensa offrendo loro una parte del territorio: si realizza così una vera e propria «rifeudalizzazione della penisola». In questa sede ci limitiamo a menzionarne alcuni (tratti da RENDINA 2004).
Ruggiero da Flor (1268-1305), Il padre aveva prestato servizio alla corte degli Svevi, prima come falconiere e poi come soldato, trovando la morte in battaglia. La famiglia aveva raggiunto una certa agiatezza, ma gli angioini l’avevano depredata di ogni bene. Così Ruggiero prende una grave decisione e, a soli 10 anni, riesce a farsi accettare in una galera di Templari. A 15 anni è il più valente mozzo della ciurma. A 25 anni riesce a sottrarre l’oro dei Templari e con esso acquista alcune galee, con le quali si mette al servizio di vari signori, distinguendosi in diverse imprese militari e non disdegnando di impegnarsi in azioni piratesche. Ruggero si dimostra particolarmente abile nel tenere coesa un’accozzaglia eterogenea di uomini di ogni risma, ai quali, oltre ad assicurare una paga, infonde la certezza che il loro impegno sarebbe stato ricompensato con gratifiche adeguate (FREDIANI 2005: 620). Divenuto ricco e potente, riesce a sposare una principessa e tutto lascia pensare che possa fondare un proprio regno quando viene ucciso.
Castruccio Castracani (1281-1328), È un trovatello. Intrapresa la carriera militare e messosi al servizio di Ludovico il Bavaro, viene da questi ricompensato con titolo di duca di Lucca, Pistoia, Volterra e Lunigiana.
Muzio Attendolo Sforza (1369-1424), Figlio di contadini romagnoli, è il fondatore della dinastia degli Sforza. Ottenuta la prima condotta dai Perugini (1398), passa poi al servizio da un signore all’altro, finché il re di Napoli, Ladislao, lo nomina gran conestabile del regno.
Uno dei suoi figli, Francesco Sforza (1401-66) combatte prima al servizio dei Visconti contro i Veneziani, poi dei Veneziani contro i Visconti. Dopo aver sposato Bianca Maria, figlia di Filippo Maria Visconti, viene acclamato signore e duca di Milano.
Il Carmagnola (1382-1432), Figlio di un contadino, Francesco Bussone, che prenderà il soprannome dal luogo di nascita (Carmagnola, un borgo del Torinese), dopo aver fatto il mandriano e il pastore, decide di arruolarsi come mercenario e riesce a distinguersi, a tal punto che Filippo Maria Visconti gli dà in sposa una sua parente, elevandolo al rango nobiliare. Da bovaro a conte, questa la travolgente carriera del Carmagnola, che si arresta quando i veneziani lo catturano e lo mettono a morte per decapitazione.
Il Gattamelata (1370-1443), Un altro condottiero di umili origini, nato da un fornaio ed elevatosi fino ad entrare a far parte della cerchia aristocratica di Venezia.
Il Medeghino (1495-1555), Questo è in soprannome (significa “piccolo medico”) di Gian Giacomo Medici, primogenito di una povera famiglia milanese. Entrato giovanissimo in una squadra di briganti, partecipa ad azioni di violenza, rapina e saccheggio e, dopo essersi così arricchito, si mette al servizio di Francesco II Sforza, così che, da masnadiero, diventa capitano di ventura. Non rinnega, tuttavia, la sua vecchia vocazione di bandito e continua ad impegnarsi in azioni di razzie, omicidi e rapimenti a scopo di estorsione. Francesco Sforza gli fa una promessa: se riesce a impadronirsi della Valsassina, del lago di Como e di Chiavenna, ne riceverà il titolo di governatore. Il Meneghino non riuscirà nell’impresa, ma otterrà comunque il marchesato di Marignano e, come marchese, passerà al servizio dell’imperatore Carlo V. Nominato viceré di Boemia, il suo passato di brigante-signorotto viene dimenticato. Quando muore riceve un solenne funerale e viene sepolto con grandi onori.
I Doria, Famiglia povera, ai margini del potere, che riesce ad emergere grazie alle gesta venturiere di Andrea (1466-1560).

09.3. Le Signorie in Italia

All’interno dei comuni, la crescente competizione fra le diverse classi sociali induce i cittadini ad abbandonare il progetto democratico e a preferirgli un governo centralizzato e autoritario (LEICHT 1950; SIMEONI 1956). In alcuni casi i cittadini affidano liberamente il potere ad un unico signore, in altri casi tollerano che qualcuno glielo imponga con la forza. Nasce così la Signoria. Essa rappresenta il culmine di una dura lotta per il potere che vede fronteggiarsi le famiglie più ricche e potenti di un comune, che sono orientate a conservare i propri privilegi acquisiti e per nulla disposte a fare concessioni di tipo democratico alle classi popolari e a riconoscere loro diritti politici. Questa lotta per il potere genera disordini sociali di ogni tipo, tali che, alla fine, l’affermazione di una famiglia sulle altre viene, generalmente, salutata con soddisfazione da tutta la cittadinanza, che comincia a pregustare un periodo di relativa quiete. Così avviene, per esempio, a Firenze quando la famiglia dei Medici riesce ad imporsi su quelle degli Albizzi, dei Capponi, dei Pitti e degli Strozzi. Dopo la conquista del potere da parte dei Medici, sarà loro cura, come osserva il Guicciardini, di evitare che le altre famiglie diventino tanto potenti da doverle temere.
Le modalità con cui una signoria si afferma cambiano da caso a caso: talvolta essa deriva dall’affermazione di casati feudali preesistenti, come è il caso degli Estensi a Ferrara o dei Savoia in Piemonte, altre volte rappresenta l’esito della naturale evoluzione in senso borghese degli ordinamenti comunali, come a Firenze con i Medici, a Verona con gli Scaligeri, a Lucca con Castruccio Castracane, a Milano con i Torriani e i Visconti, altre volte ancora è il risultato di un colpo di mano militare operato da un capitano di ventura, come quello di Francesco Sforza a Milano o di Braccio di Montone a Perugia. Rimane il problema della legittimazione a livello internazionale: quando il Signore viene riconosciuto dal papa o dall’imperatore, che gli conferiscono un titolo nobiliare trasmissibile ereditariamente, in quel momento la Signoria si trasforma in Principato.
Esercitando un potere assoluto, i Signori possono agevolmente riportare l’ordine nel proprio territorio e dedicarsi alla politica che sembra a loro più congeniale, in piena libertà. In pratica essi governano badando ai propri interessi e considerando la città come una proprietà privata da abbellire e ingrandire quanto più possibile. Perciò richiamano presso di sé i più grandi artisti e letterati del tempo (mecenatismo), favoriscono l’opera di scienziati e ingegneri, nella convinzione che lo sviluppo della tecnica dia loro dei vantaggi nei confronti degli avversari politici e dei potenziali nemici esterni, si servono di forti eserciti, composti da soldati mercenari, le cosiddette Compagnie di ventura, sia a scopo difensivo, che per attuare politiche espansionistiche, si avvalgono dell’arte per dimostrare la propria grandezza e il proprio prestigio. Così molte città divengono splendide e potenti, anche se nessuna riuscirà a sottomettere le altre e a creare un unico grande Stato italiano.
Questo nuovo assetto politico presenta risvolti, che sono in parte positivi e in parte negativi. L’aspetto positivo è rappresentato dalla riscoperta del genio creativo individuale, che rende possibile quel grandioso rinnovamento culturale, che prenderà il nome di Umanesimo-Rinascimento (vedi oltre). L’aspetto negativo del nuovo corso è l’eclissi della democrazia comunale (SALVATORELLI 1971) e il ritorno ai più tradizionali rapporti di forza, tanto che uno dei maggiori intellettuali del momento, Poggio Bracciolini, può scrivere, intorno al 1450, che le imprese egregie nascono dall’ingiustizia e dalla violenza e che la plebaglia non può aspirare alla libertà. In effetti, durante il Rinascimento “non c’è principe che non abbia fondato il suo potere sulla violenza e sul sangue” (ALTOMONTE 2003: 118).

09.2. Il pensiero politico nel 1300

Agli inizi del Trecento, nel corso di questa feroce lotta per il potere universale tra papa e imperatore e proprio mentre queste due istituzioni appaiono in fase declinante e si affermano gli Stati nazionali, viene elaborato un variegato pensiero politico, che copre ogni possibile alternativa. Il quesito a cui s’intende trovare una risposta è il seguente: a chi compete la sovranità?
Egidio Romano, che scrive intorno al 1300, ritiene che spetti al papa l’appellativo di signore assoluto del mondo per diritto divino.
Giovanni da Parigi, che scrive un paio di anni dopo, afferma che ogni potere deriva da Dio, tanto quello del re quanto quello del papa e che, pertanto, questi due poteri sono indipendenti ed entrambi sovrani.
Marsilio da Padova (1280-1343), che pubblica Il Difensore della pace nel 1324, è portatore di un pensiero apparentemente assai moderno e laico, ed è naturale che venga avversato dalla Chiesa e bollato come rivoluzionario sovversivo e attentatore dell’ordine pubblico e dello statu quo. Per Marsilio, come già per Aristotele, il cittadino è tale solo se “partecipa alla comunità politica” (I 12, 4). Non sono dunque cittadini “i bambini, gli schiavi, gli stranieri e le donne” (I 12, 4). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso la potestà legislativa, in modo diretto o indiretto, tramite rappresentanti: “l’autorità di fare le leggi spetta all’intero corpo dei cittadini” (I 12, 8), “oppure a quella o quelle persone alla quale o alle quali l’intero corpo dei cittadini ha concesso questa autorità” (I 13, 8) per mezzo di libere elezioni. Personalmente, Marsilio sembra preferire la monarchia elettiva (I 16. 18). Secondo il Padovano, il genere di governo elettivo è superiore a quello non elettivo, anche perché soltanto col metodo elettivo si può avere il governante migliore (I 9, 7). Il legislatore ultimo rimane comunque il popolo, che consiste o nell’intero corpo dei cittadino o nella parte di essi prevalente per quantità e qualità (I 12, 3). In ogni caso, il corpo dei cittadini conserva “il diritto di correggere il governo e di deporlo, se sarà vantaggioso per il bene comune” (I 14, 1-2).
Il principale obiettivo che muove lo sforzo intellettuale del Padovano e serve da filo conduttore della sua opera è la critica del potere politico del papa e della ricchezza della chiesa. Marsilio vede nelle pretese politiche del papa un atto ingiustificato e una minaccia per la pace. Cristo, infatti, non avrebbe investito d’autorità sulle cose umane gli uomini di chiesa. “Pertanto, ciascun sacerdote o vescovo soggiace e deve soggiacere, al pari dei laici, alla giurisdizione dei principi in tutte quelle norme cui la legge umana prescrive di attenersi” (II 8, 9). Nemmeno il papa può pretendere di sfuggire a questa regola e porre sotto la propria autorità il clero, sottraendolo alla legittima giurisdizione del principe (II 8, 9). Per quel che concerne i peccati contro la legge divina, l’unico giudice è Cristo (II 10, 2) e il suo giudizio verrò pronunciato nell’aldilà (II 10, 11). Ne discende che gli eretici non dovranno essere processati dai ministri della chiesa, ma solo dalle autorità civili e solo per i reati comuni.
La chiesa deve osservare la povertà materiale e spirituale. Cristo, infatti, ha detto che i poveri meriteranno il regno dei cieli e per poveri non intendeva soltanto gli indigenti, ma soprattutto coloro che volontariamente rinunciano alle ricchezze, ossia ai beni temporali “che non sono necessari per il sostentamento” (II 13, 17). La povertà cui si riferisce Cristo è “una disposizione interiore della mente” (II 13, 14). L’avidità e la bramosia allontanano la persona dal regno dei cieli, e non vale la scusa di chi affermi di non essere legato alle proprie ricchezze, perché “dove c’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). Ne consegue che i presbiteri dovranno osservare la povertà evangelica e non devono avere né bramare potere sulle cose o sulle persone, ma solo una generica autorità morale, oltre all’autorità di amministrare i sacramenti, che dev’essere esercitata in modo uguale da tutti i presbiteri, dal semplice sacerdote al papa (II 15, 4). Il papa non ha ricevuto da Cristo “un potere delle chiavi maggiore di quello degli altri sacerdoti” (II 15, 4). E il fatto che i papi riconducano la propria autorità sulle persone e sulle cose alla volontà dell’imperatore Costantino dimostra e conferma, secondo Marsilio, che il potere del papa origina da quello dell’imperatore, gli è subordinato (II 18, 7). In definitiva, nessun vescovo ha autorità nei confronti di qualsiasi altro (II 16, 19), ma ogni vescovo è indifferentemente successore di ciascun apostolo. “La sola cosa che possiamo senza dubbio concedere è che Pietro ebbe un certo primato sui compagni in virtù della sua età” (II 16, 4).
Né i vescovi, né il papa hanno autorità nei confronti delle istituzioni dello Stato (II 21). Sbaglia dunque Bonifacio VIII a pretendere che tutti i principi del mondo siano soggetti “alla giurisdizione coattiva del papa di Roma” (II 21, 9). (Marsilio si riferisce all’Unam Sanctam promulgata dal pontefice nel 1302). Il potere rivendicato dal papa è illegittimo, perché vietato da Cristo, ed è pericoloso per la pace (II 21, 14). I papi si sono appropriati in modo fraudolento della «pienezza del potere» e, a causa di esso, vengono commesse “moltissime mostruosità contro la legge divina e umana, e contro il retto giudizio di chiunque abbia la ragione” (II 23, 13). Secondo Marsilio, la massima autorità della chiesa è il concilio generale dei cristiani e ad esso spetta il diritto di ultima parola sull’interpretazione della Sacra Scrittura (II 20, 2), ed è solo a motivo dell’impossibilità materiale di consultarlo sistematicamente che si rende necessaria la presenza dei vescovi. Con la sua presunta pienezza di potere, sostiene il Padovano, il papa sta avvelenando i rapporti fra i popoli e il solo modo di riconquistare la pace è di mettere ogni cosa a suo posto, dando a Cesare il potere che gli spetta secondo la legge e ai presbiteri il ruolo assegnato loro da Cristo.
Il pensiero di Marsilio è segnato da note di contrattualismo, di giuspositivismo, di laicismo con separazione Stato-Chiesa, e afferma i princìpi di sovranità popolare e rappresentanza, ma non è immune dalla temperie culturale del suo tempo, e lo si capisce dall’ammiccamento alla monarchia e dal riconoscimento del diritto della chiesa ad esistere.

09.1. XIV secolo: il papato francese

Alla crisi del potere imperiale s’accompagna l’ascesa dei poteri locali, in particolare in Francia, il cui sovrano è così potente da condizionare per un settantennio l’elezione dei pontefici (tutti francesi e filo-francesi) e fare del papa un vassallo del re di Francia. Il primo di questi papi, Clemente V (1305-14), trasferisce la sede pontificia ad Avignone e si comporta come una sorta di funzionario speciale del re, che vive in una reggia dorata, godendo di particolari benefici e privilegi. Da potenza universale, il papato si è ridotto a potenza locale e di parte. I movimenti monastici pauperisti, ossia quella frangia di cristiani che credono di essere interpreti fedeli della dottrina del Fondatore, rimangono perplessi e si chiedono quando mai Cristo e i suoi discepoli hanno ostentato ricchezza o hanno posseduto qualcosa. Il papa, Giovanni XXII (1316-34), si sente in dovere di rispondere, dichiarando eretica una simile insinuazione, ma è ricambiato dai Minori con la stessa accusa. Nella contesa si inserisce Ludovico il Bavaro, che, mentre fa propria l’accusa di eresia pronunciata dai monaci contro il papa, sostiene che l’autorità dell’imperatore deriva direttamente da Dio ed è indipendente da quella del papa. È una lotta per l’egemonia fra i massimi poteri. Il 13 settembre 1376 Gregorio XI (1370-8) lascia Avignone e ritorna a Roma, dove s’insedia non più nel palazzo Laterano, ma bensì in Vaticano.

09. Il XIV-XV secolo: signorie, principati e monarchie nazionali

I comuni si rivelano troppo deboli per poter competere in uno scenario internazionale, che tende a farsi sempre più ampio e aggressivo, e lo stesso avviene per i singoli feudatari: i primi affidano ad un signore e fondano signorie e principati, i secondi si uniscono intorno ad un capo comune e fondano le grandi monarchie nazionali.

08. L’Europa Centrale fra XII e XIV secolo

Nel periodo compreso fra XIII e XIV secolo, nell’Europa centrale si vengono a trovare di fronte due realtà politiche molto diverse: da un lato ci sono i potenti ducati germanici, molto popolosi, ben organizzati, dinamici e desiderosi di espandersi, dall’altro lato ci sono le popolazioni slave ad est della Germania, che, con l’eccezione del regno di Polonia, vivono ancora allo stato tribale o sono comunque politicamente disorganizzate e militarmente deboli. Ed è lì che si focalizza l’attenzione di molti signori germanici, i quali, mossi un po’ dal fascino dell’avventura e un po’ dalla brama di ricchezze, avanzano alla testa di schiere armate allo scopo di depredare e razziare tutto il possibile e uccidono senza pietà chiunque gli si pari davanti. Spesso al seguito di questi condottieri si muove un vero e proprio esercito di coloni, che si insediano nelle terre rimaste disabitate, e di monaci, che intendono convertire al cristianesimo quei rozzi pagani slavi. Intere popolazioni vengono sterminate e vasti territori vengono occupati da questi condottieri, specie sotto gli Hohenstaufen. Tra i maggiori protagonisti di questa espansione ad est, va ricordato l’Ordine religioso-militare dei Cavalieri teutonici, che, fra il XIII e il XIV secolo, riescono a conquistare la Prussia, la Pomerelia, l’Estonia e la Livonia.

08.1. Dinastie
Molte dinastie traggono origine proprio in questo tormentato periodo, in cui papa e imperatore competono per il potere universale, mentre feudatari e comuni tendono a rafforzare il loro potere locale. Ne menzioniamo alcune.

08.1.1. Hohenstaufen
Famiglia tedesca della Svevia. Capostipite è Federico di Beuren († 1094), servitore fedele dell’imperatore Corrado II il Salico e dei suoi eredi: Enrico III ed Enrico IV. Il figlio, Federico di Staufen (1079-1105), sposa Agnese, figlia dell’imperatore Corrado, che gli porta in dote la Svevia (che comprende anche l’Alsazia) e la Franconia. La prima passerà in eredità a Federico il Guercio (1105-47), la seconda a Corrado III (1115-52), che diventerà imperatore (1138-52). La dinastia degli H. cingerà la corona imperiale anche con Federico I Barbarossa (1152-90), Enrico VI (1190-97), Filippo (1198-1208), Federico II (1212-50) e Corrado IV (1250-54), e riuscirà ad annettere il Regno delle Due Sicilie. Gli H. soccomberanno sotto i colpi dei papi e l’ultimo rampollo, Corradino, verrà messo a morte da Carlo d’Angiò nel 1268.

08.1.2. Hohenzollern
Famiglia tedesca della Svevia, che afferma di discendere dai Burcardingi, sovrani di Svezia del X secolo. Inizia la sua ascesa al seguito degli Hohenstaufen. Il primo membto noto della dinastia è Burchard di Zolorin (m. 1061). Nel 1227 i due figli di Fderico III dividono il patrimonio di famiglia in due rami: il ramo di Svevia e quello di Franconia. Il primo regna fino al 1849, quando vende il principato alla Prussia. Il ramo di Franconia riceverà l’eredità degli Hohenstaufen, dopo la morte di Corradino, e un suo membro, Federico III diventerà re della Prussia (1701), mentre Guglielmo I sarà proclamato imperatore di Germania (1871). Dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, Guglielmo II sarà costretto ad abdicare.

08.1.3. Asburgo
Benché gli Asburgo si siano proclamati discendenti di Giulio Cesare e Nerone, nonché regnanti per elezione divina, il loro lignaggio non è particolarmente illustre (WHEATCROFT 2002: 18). Essi, infatti, fanno il loro ingresso nella storia con Wermer († 1096), un piccolo conte, vescovo di Straburgo, che, con un gesto opportunistico, intorno al 1020, riesce ad appropriarsi di un terreno di poche centinaia di ettari, non adeguatamente controllato da alcun altro signore. Grazie ad una politica di servizio e fedeltà agli Hohenstaufen, più che per il loro valore militare, i suoi discendenti ottengono possedimenti in Svizzera e la contea di Zurigo, e si avviano ad un’ascesa irresistibile, che culmina con l’accesso al trono imperiale da parte di Rodolfo IV (1273-91), che annette i ducati di Austria e Stiria (1278). Qualche anno dopo gli succede il figlio Alberto I (1298-1308), il cui assassinio fa svanire il suo disegno di fondare una dinastia, ma non impedisce un ulteriore espansione del regno, che annette Carinzia (1335), Tirolo (1363), Friburgo (1368) e Trieste (1382). Qualche tempo dopo gli Asburgo riconquistano la corona imperiale con Alberto II (1438-40) e, eccetto una breve interruzione (1740-5), la conservano fino alla fine del Sacro Romano Impero (1806). Gli Asburgo, la cui grandezza è legata anche ad un’accorta politica matrimoniale, raggiungono la massima potenza sotto Carlo V (1519-56), quindi si frammentano in diversi rami, indebolendosi. Continueranno a regnare sull’Austria dal 1278 al 1918.

08.1.4. Savoia
La storia dei Savoia comincia nell’XI secolo con un conte di nome Umberto detto Biancamano, del quale però sappiamo assai poco. In particolare, ignoriamo quali competizioni dovette affrontare e superare per riuscire infine a controllare i valichi alpini del Gran San Bernardo e del Moncenisio, che sono zone di transito di pellegrini e mercanti, ma anche di eserciti. In una situazione del genere, ci si può arricchire o imponendo pedaggi, o offrendo servizi, o rapinando, o offrendo appoggio a condottieri di passaggio. Potendo diventare “fonte di potere” (OLIVA 1999: 37), il controllo dei valichi è conteso da molti piccoli signori locali, pronti a sfruttare ogni occasione per migliorare la propria posizione e imporsi sugli altri. “Si tratta di un’aristocrazia irrequieta, spesso impegnata in risse e massacri, che della guerra fa mestiere politico, ma anche occasione di razzia e di bottino, strumento per affermare il proprio prestigio, passatempo per combattere la noia” (OLIVA 1999: 82-3). D’altra parte, è interesse dell’imperatore “tenere le grandi vie di comunicazioni in mani amiche” (OLIVA 1999: 42).
Umberto decide di appoggiare l’imperatore Corrado II, mentre questi, nel corso della lotta per la successione al trono di Borgogna, alla testa delle sue truppe, muove contro il conte di Blois, ottenendone in cambio dei feudi. Il potere viene consolidato dal figlio di Umberto, Oddone che, grazie al matrimonio con Adelaide (1046), contessa di Torino, lo estende al di qua delle Alpi, ciò che gli consente nel contempo di proiettarsi nella grande politica internazionale. Nel Duecento i Savoia appoggiano prima il Barbarossa e poi Federico II nella lotta contro i comuni, ottenendone il titolo di vicari imperiali. Nel secolo successivo, approfittando delle difficoltà di Maria di Blois, contessa di Provenza, Amedeo VII (1383-91) riesce ad annettere Nizza dando così alla Savoia l’agognato accesso al mare, ma è sotto Amedeo VIII (1391-1416) che, innalzati dall’imperatore al rango di duchi (1416), i Savoia raggiungono una rilevante importanza politica internazionale e sanno dare al proprio paese un’impronta moderna. Inizia poi per la Savoia un lungo periodo di declino, legato soprattutto alle mire espansionistiche della Francia nei confronti dell’Italia.
Dopo essere stata occupata dai francesi, la Savoia viene riacquisita da Emanuele Filiberto (1553-80), che ha valorosamente combattuto a fianco dell’imperatore contro la Francia e stabilisce la capitale a Torino (1562). La storia della Savoia rimane comunque strettamente legata con quella della Francia, svolgendo un ruolo per lo più di subordinazione, che si perpetuerà almeno fino a Napoleone. Dopo la pace di Utrecht (1713) i Savoia ottengono il regno di Sicilia, che però sono costretti a scambiare con la Sardegna (1720).

08.1.5. Visconti
Celebre famiglia ghibellina di Milano, le cui origini sembrano risalire a Desiderio, re dei longobardi. In realtà, “la prima traccia dei Visconti storici è del 1067” (COGNASSO 1960: 11) e si riferisce ad Anselmo Visconte, vice del vescovo-conte della città, che svolge funzioni giudiziarie, e così sarà fino al 1186, quando in Milano viene costituito il primo podestà, in sostituzione del vescovo-conte. La potenza di questa famiglia viene fondata da Ottone (1208-95), che prima assume la carica di arcivescovo di Milano (1262), poi impossessa della città (1277), grazie anche all’appoggio del papa, dopo una lunga guerra contro i Della Torre, altra famiglia dalle origini oscure (COGNASSO 1960: 32), che al momento governa la città. I Visconti conducono la loro politica con indubbia abilità e sanno sfruttare i favori tanto del papa quanto dell’imperatore, anche se pendono dalla parte di quest’ultimo. La dinastia si estingue con Filippo Maria (1447), il quale, non avendo eredi maschi, dà la figlia in isposa a Francesco Sforza, che fonda una nuova dinastia.

08.1.6. Scaligeri
Vengono così chiamati i membri della famiglia Della Scala, la cui residenza a Verona è attestata già nell’XI secolo, anche si sa poco delle sue origini. Sembra che i Della Scala siano riusciti a crearsi una buona posizione economica facendo i mercanti e ottenendo dei piccoli feudi, finché Balduino, divenendo console (1147), porta il casato sotto i riflettori della storia. Gli Scaligeri si oppongono alla politica di terrore di Ezzelino da Romano (un germanico venuto in Italia al tempo di Corrado II e divenuto podestà di Verona nel 1236) e alcuni di loro vengono messi a morte. Solo dopo la morte di Ezzelino (1259), si apre per i Della Scala la strada del potere e Mastino I può divenire podestà dei mercanti (1261), capitano del popolo (1262) e podestà di Pavia (1272). Inizia così la signoria degli Scaligeri.

08.1.7. Estensi
Signori di Ferrara (1240-1597), duchi dal 1471. Signori anche di Modena (1288-97), duchi dal 1452. Anche l’origine di questo casato viene collocata nell’XI secolo e anche di essa si sa ben poco. Nella seconda metà del XVI secolo, quando gli Estensi avevano un blasone ormai ben consolidato, alcuni storici hanno provato a ricostruirne la genealogia, ma con risultati diversi: gli Estensi potrebbero discendere da Carlomagno, dagli etruschi o dagli antichi troiani (CHIAPPINI 1967: 7). È un modo come un altro di ammettere la nostra ignoranza.

08.1.8. Malatesta
Sappiamo che i M. regnano in Rimini e parte della Romagna tra il XIII e il XIV secolo, ma non sappiamo nulla delle loro origini che, si ritiene, risalgano alla fine del X secolo, quando un signore germanico, sceso in Italia al seguito di Ottone III, viene nominato vicario imperiale come ricompensa dei suoi servigi. In realtà, i primi M. di cui si hanno notizie certe risalgono al XII secolo: sono beneficiari di terre della chiesa di Ravenna che, attraverso l’acquisto di nuove terre e opportuni matrimoni, entrano nel novero dell’aristocrazia locale. Per questa via, alla fine, Giovanni Malatesta, diventando podestà di Rimini (1239), decreta l’ingresso nella storia della nuova dinastia.

08.1.9. Gonzaga
Prende questo nome la famiglia Corradi, che è originaria di Gonzaga, un paese in provincia di Mantova. Le loro origini si perdono nella leggenda e i genealogisti ci offrono versioni contrastanti sulle loro presunte origini illustri (CONIGLIO 1967: 7). Sappiamo che, nel XII secolo, i G. hanno costituito un ricco patrimonio fondiario, ma, fino a tutto il secolo seguente, le notizie sul loro conto sono molto scarse. In questo periodo a Mantova domina la famiglia Bonacolsi, che si deve confrontare con Milano, Verona e Venezia. I G. seguono il decorso degli eventi sperando di sostituirsi ai Bonacolsi. Alla fine riescono nel loro intento attraverso un abile inserimento nella politica di espansione degli Scaligeri, che mirano ad impadronirsi di Mantova.
È Luigi Gonzaga che, col sostegno degli Scaligeri, guida la rivolta contro i Bonacolsi ed ha la meglio, divenendo signore di Mantova (1328). Inizia così la storia dei G., che da ricchi proprietari terrieri divengono nobili signori, rivelandosi “uomini freddi, calcolatori, sagaci diplomatici” (CONIGLIO 1967: 19). Comprendono che devono mantenersi uniti se vogliono conseguire traguardi importanti, e così fanno: “è la famiglia che si batte con tutti i mezzi per mantenere quanto ha acquistato ed il cinismo, la disinvoltura e la mancanza di scrupoli di cui danno prova i primi Gonzaga va attribuita a tutto il gruppo, non è prerogativa di uno solo” (CONIGLIO 1967: 19). Cossì uniti, i G. entrano nella lotta che vede di fronte l’imperatore germanico e Roberto d’Angiò, schierandosi con quest’ultimo. E gli va bene. Da qui in avanti, i G. continuano a muoversi avendo di mira “solo ed unicamente i propri interessi” (CONIGLIO 1967: 19) e riuscendo nell’intento di fondare una prestigiosa dinastia.

07. Decadenza dell’idea di potere universale

Il periodo che va dal 1254 al 1517 fa registrare una lunga crisi del potere imperiale, che diventa insanabile dopo l’entrata in vigore della Bolla d’oro (1356), dove sono fissate le norme che regolano la nomina dell’imperatore. In pratica, si stabilisce che essa debba avvenire tramite elezione e per opera di sette grandi elettori: tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia) e quattro laici (il re di Boemia, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato e il marchese del Brandeburgo). Il fatto è che i potenti principi germanici, allo scopo di preservare la propria indipendenza, hanno interesse ad eleggere al trono imperiale solo candidati deboli e privi di grande personalità. Nonostante i roboanti proclami dei pontefici, il mesto e lento declino dell’impero trascina con sé anche il papato. Insomma, ad essere in crisi è proprio l’idea di potere universale, che ora deve fare i conti con un’altra idea emergente, quella delle monarchie nazionali.

06. Il primato universale del papa nel XIII secolo

Nel XIII secolo, il potere dei papi è tale che essi possono ambire ad un effettivo primato universale. Tale primato è invocato con forza da Innocenzo III (1198-1216), che si fregerà del titolo di “vicario di Cristo”. Siamo in pieno delirio di onnipotenza, che è del tutto estraneo allo spirito evangelico. Innocenzo III è uno dei papi più potenti della storia, una sorta d’incarnazione dell’ideale teocratico gregoriano: condiziona la politica internazionale e molti re gli rendono l’omaggio feudale. Nella bolla Venerabilem (1202), Innocenzo III, pur riconoscendo ai principi elettori il diritto di eleggere l’imperatore, avoca al papa il diritto di esaminare le virtù cristiane dell’eletto, prima di consacrarlo e, in caso di esito negativo, il diritto di respingere anche un’elezione unanime.
Se si confronta la corte di Innocenzo con quella di qualsiasi altro monarca si fa fatica a cogliere sostanziali differenze: lo sfarzo è identico, e anche la condotta e gli obiettivi. Ma Cristo non aveva esaltato i poveri e condannato i ricchi? Molti cristiani sono allibiti dal comportamento dei papi e fondano delle comunità che vivono in povertà (Umiliati, Spirituali, Gioachimiti, Fratelli Penitenti), delle quali riescono a sopravvivere solo quelle che non condannano apertamente la ricchezza del papa. Contro gli Albigesi, rei soltanto di non pensarla come lui, Innocenzo promuove una “crociata”, che finisce con la strage degli stessi. È una pagina nera nella storia del papato.
Sotto Innocenzo III ha luogo un evento di capitale importanza non solo nella storia della chiesa, ma anche di quella della società in generale, il IV concilio Lateranense (1215), che, fra le altre cose, sostituisce la confessione pubblica con quella personale, che favorisce l’introspezione e lo sviluppo di una sfera individuale, da cui prenderanno origine la psicologia e la psicanalisi. Il concilio riforma anche il matrimonio, che finisce di essere il semplice esito di trattative fra clan e diventa l’unione libera e indissolubile fra due persone. Il concilio condanna anche gli ebrei, l’usura e l’eresia, gettando così le basi per l’istituzione dell’Inquisizione. “In pratica, la lotta contro l’eresia evidenzia i meccanismi di potere. Così la Chiesa esercita pressioni sui poteri laici: se non si comportano come signori «cristianissimi», cacciando l’eresia, la loro legittimità rischia di vacillare. In cambio, i poteri laici, quando affrontano dissidenze sociali o politiche, hanno tutto l’interesse a denunciarle come eresie e obbligare la Chiesa a legittimare le loro azioni” (LE GOFF 2003: 125).

06. 1. San Francesco d’Assisi (1181-1226)
Di Francesco bambino e ragazzo non sappiamo nulla, a parte il fatto che è nato ad Assisi da un certo Pietro di Bernardone, un mercante di stoffe e forse anche un usuraio, che gli offre condizioni di vita agiata e che ripone su di lui speranze di elevazione di status sociale, magari grazie ad una carriera che lo potrebbe far diventare un rispettato cavaliere o un accorto matrimonio, che potrebbe farlo entrare nel rango nobiliare. In un primo momento, il giovane F. fa suoi questi sogni del padre, ma poi si rende conto che non è tagliato per quella vita. Si sente invece attratto da cose più semplici, come l’incanto della natura, lo stupore della creazione, l’amore di Dio, la condivisione, il sorriso, e scopre che il mondo che gli offre suo padre non lo interessa più di tanto.
Il giovane F. decide che è meglio seguire le proprie inclinazioni e si getta “verso l’ignoto entrando in un bosco, cantando in francese le lodi di Dio” (FRUGONI 2001: 30). Gli altri non lo capiscono, nemmeno i frati ai quali chiede accoglienza. Nessuno è disposto a giustificare la sua scelta di voltare le spalle ad una vita “normale” per abbracciarne una di estrema povertà. Il giovane non si perde d’animo e si rifugia in un lebbrosario. Gli altri lo prendono per matto, e F. continua ad offrire nuovi spunti per confermarli nel loro giudizio. Gira le case a chiedere sassi per riparare le crepe delle chiese e non disdegna gli avanzi di cibo.
Per suo padre non ci può essere vergogna più grande, ma qualcuno si sente attratto da quello strano giovane e si mette al suo seguito, accettando di vivere il cristianesimo puro e rifiutando perfino di diventare preti o monaci, per non beneficiare dei privilegi conferiti dall’ordine. La distanza che separa lo stile di vita essenziale dell’ordine mendicante da quello sfarzoso della curia papale è immensa, eppure F. non si lascia andare in parole di critica nei confronti delle alte gerarchie ecclesiastiche, ma si sottomette docilmente alla loro autorità. “Rispetta la Chiesa ma segue le orme di Cristo” (FRUGONI 2001: 49) e prosegue il suo cammino senza lasciarsi influenzare da alcuno. Così, mentre i cristiani spagnoli combattono contro i musulmani e mentre la chiesa perseguita i catari e dà il via alla quarta crociata (1203), F. gira per le strade col suo ruvido saio predicando l’amore fraterno e la povertà assoluta e prestando il suo aiuto dovunque ce ne sia bisogno: nei campi, nelle case e nei lebbrosari.
F. rifiuta dunque la proprietà privata e il denaro e non vuole nemmeno sentir parlare di gerarchia nel suo gruppo: tutti sono “minori”. All’età di 29 anni, F. ha intorno a sé dodici compagni, con i quali si muove pellegrino nel mondo, portando l’amore di Cristo ed evangelizzando, finché, avendo compreso che non può fare a meno di darsi una qualche organizzazione, decide di fondare “un ordine mendicante, dunque mobile, radicalmente distinto dai monaci che per definizione sono sedentari” (LE GOFF 2003: 83). Il suo modello rimane Cristo, “sempre povero e pellegrino” (FRUGONI 2001: 53) e a chi gli fa notare che senza risorse la comunità non può avere futuro risponde: “Signore, se avessimo dei beni, dovremmo disporre di armi per difenderli” (FRUGONI 2001: 53). Adesso è arrivato il momento di chiedere al papa l’approvazione della propria Regola.
Il caso vuole che in quel momento sul trono di Pietro sieda Innocenzo III, uno dei papi più potenti della storia. L’incontro non può essere più contrastato: quel potente papa ha di fronte a sé un autentico pezzente. L’uomo più ricco e l’uomo più povero si guardano in faccia, ma solo per un attimo: il papa non riesce a trattenere un moto di disgusto e, sdegnato, volge altrove lo sguardo e invita quel miserabile a vivere coi porci. F. prende alla lettera l’invito e, dopo aver trascorso qualche tempo in un porcile, ritorna dal Santo Padre, il quale ha già avuto modo di valutare la situazione e comprende che gli conviene di impartirgli la benedizione. F. ormai si sente autorizzato a portare avanti la sua missione, e già comincia coi romani, che però mostrano di non gradire. Decide allora di recarsi in Marocco per predicare il vangelo ai saraceni, ma è bloccato da una malattia (1213). Intanto, la fama della sua santità si va diffondendo e il numero dei seguaci va crescendo.
Nel 1215 Innocenzo III bandisce la quinta crociata, e ciò offre a F. l’occasione di raggiungere l’esercito crociato in Egitto, dove tenta di convertire il sultano (1219). L’anno seguente ritorna in Italia e si dedica alla vita ascetica e mistica. Il suo corpo è pieno di acciacchi, un tracoma lo priva quasi del tutto della vista e per di più riceve le stigmate, che costituiscono un’altra causa di sofferenza. In queste condizioni, F. deve lottare contro le autorità ecclesiastiche ed i suoi stessi compagni, che reputano impraticabile una Regola fatta di povertà e dedizione estreme. Così, dopo un iter assai tormentato, alla fine viene approvata una Regola moderata, ma non confacente alle profonde convinzioni di F., il che equivale ad ammettere che il suo ideale ispirato alla perfetta imitazione di Cristo non è attuabile. F. muore nel 1226, all’età di 45 anni, e due anni dopo è già canonizzato.

Onorio III (1216-27) approva l’Ordine dei Predicatori di Domenico di Guzmán (1216), che s’imporrà come protagonista di primo piano nei secoli seguenti.
Gregorio IX (1227-41) istituisce i tribunali d’Inquisizione (1232) e li affida proprio ai Domenicani.
Sotto Innocenzo IV (1243-54), che assume l’ambizioso titolo di “vicario di Dio”, lo Stato della chiesa raggiunge le sue massime dimensioni storiche, estendendosi dalla Toscana alla Sicilia. Il papato non è mai stato così potente, ma deve muoversi fra altri centri di potere e il suo cammino non è facile.
Clemente IV (1265-8), francese, avvocato di grido, sposato e padre di due figli, dopo la morte della moglie si ritira in un convento certosino e inizia la carriera ecclesiale, che lo porta al soglio pontificio. La sua politica è anti-sveva e favorevole a Carlo d’Angiò, il quale, benedetto dal papa, conduce il suo esercito in Italia, sconfigge gli svevi di Manfredi a Benevento (1266) e viene incoronato re di Sicilia. Da parte sua, Carlo delude il papa, manifestando un comportamento rapace e senza scrupoli, e “una sete di dominio superiore a quella sveva” (RENDINA 1996: 390). È evidente che egli sta facendo i suoi interessi e non quelli della chiesa, come del resto anche il papa persevera nella sua politica di potenza.
Sotto Gregorio X (1271-6), si svolge a Lione il 14° concilio ecumenico, in cui si ritorna a parlare dell’elezione del papa. Il problema da risolvere è l’abituale lungaggine dell’elezione, a causa della difficoltà di raggiungere la prevista maggioranza dei due terzi. Il problema viene risolto con la costituzione del conclave (1274). In pratica, alla morte di un papa si concedono nove giorni per eseguire i funerali e dare tempo ai cardinali di riunirsi. Nel decino giorno essi vengono rinchiusi in un’ampia stanza comune (o conclave) “non intramezzata da muri o da tende e munita di una finestrella per l’introduzione di cose necessarie, mentre la porta viene sprangata dai due lati e affidata alla guardia dei magistrati cittadini, per interrompere ogni comunicazione fra l’interno e l’esterno. Se l’elezione non viene fatta in tre giorni, la mensa dei cardinali è ridotta a un piatto per pasto e dopo l’ottavo giorno sono messi a pane, acqua e vino” (GIBBON 1967: 2774). Oltre a ridurre i tempi necessari all’elezione, il conclave si prefigge lo scopo di rendere la votazione un atto esclusivo del collegio cardinalizio e creare le condizioni affinché esso non subisca influenze dall’esterno.
Purtroppo, questi obiettivi rimarranno semplici desideri. Essi celano, tuttavia, la caparbia volontà dei papi di rendersi indipendenti da ogni altro potere e di realizzare un’autocrazia assoluta e universale e, anche se ciò, al momento non è possibile, nulla vieta ad un papa, come Niccolò III (1277-80), uomo energico e spregiudicato, di curare i suoi interessi mondani e di riportare il nepotismo a livelli mai visti.
Intanto, in Sicilia scoppiano i Vespri: i siciliani vogliono cacciare gli angioini e chiedono al papa di assumere la sovranità dell’isola. Ma papa Martino IV (1281-5), che è francese e parteggia per i francesi, risponde condannando la rivolta e scomunicando i siciliani, i quali allora si rivolgono a Pietro d’Aragona, che viene colpito a sua volta dalla scomunica.
La spocchia papale ha raggiunto livelli tali da suscitare un profondo desiderio di moralità perfino nei cardinali, che decidono di elevare al soglio pontificio Pietro da Morrone, un eremita, il quale assume il nome di Celestino V (1294). Ma Pietro è un uomo troppo semplice e costumato per poter tollerare lo sfarzo e il materialismo della corte papale e si dimette dalla carica.
Vuole ritornare al suo eremo, ma il neoeletto papa Bonifacio VIII (1294-1303), temendo un suo ripensamento, lo fa rinchiudere in una prigione, dove il povero Pietro muore. Inizia con questo gesto indegno il pontificato di Bonifacio, che ripropone l’atteggiamento di sprezzante superiorità dei suoi predecessori, nella pervicace, infondata e patologica convinzione che il papa è, o dev’essere, il dominatore del mondo. L’autocompiacimento di questo papa è tale da sfociare in una vera e propria idolatria narcisistica, che trova espressione nelle numerose statue che lo stesso fa erigere alla propria persona. Il caso vuole che, di fronte ad una personalità così vanagloriosa, si erga un’altra personalità altrettanto piena di sé, che risponde al nome di Filippo il Bello, re di Francia, il quale manifesta una ferma insofferenza ad ogni dipendenza e proclama la sua sovranità. Bonifacio risponde con le bolle Ausculta fili (1301) e Unam Sanctam (1302), dove ribadisce il concetto che solo il papa è posto da Dio al di sopra di qualsiasi sovrano e tutti devono assoggettarsi a lui. Bonifacio è l’ultimo papa ad esprimere con forza quest’idea di grandezza.